L’opera di Luciano Di Gregorio, dal titolo “Allegoria dell’Ermafrodito Floreale” e appartenente al ciclo Iconoclastica, si presenta come un’immagine di grande forza simbolica e raffinata costruzione estetica. L’artista gioca consapevolmente con i codici visivi della ritrattistica rinascimentale e barocca, innestandoli in una dimensione concettuale contemporanea, fatta di tensioni identitarie, sovversione dei generi e ricerca di un nuovo canone iconografico.
La figura centrale, rappresentata con un’impostazione frontale e ieratica, richiama la solennità delle madonne quattrocentesche e delle allegorie manieriste, ma si carica di un’intensità perturbante. Il corpo, reso con straordinaria cura pittorica nonostante la natura fotografica dell’opera, si staglia sul fondo scuro in un contrasto che esalta la luminosità della pelle e la preziosità del costume. La nudità del capo, privo di capelli, trasforma il volto in un terreno di assoluta neutralità: né maschile né femminile, ma sospeso in una condizione liminale che rompe le categorie binarie. È qui che l’artista innesta il concetto di ermafroditismo, non come mero dato biologico, ma come allegoria di un’identità fluida, fertile e trasformativa.
L’elemento floreale, che dà titolo all’opera, non è semplice ornamento decorativo: le rose che sbocciano sul capo, come un’aureola carnale, e quelle che ricamano le maniche e la veste, suggeriscono un’idea di rigenerazione e di continuità vitale. La figura gravida, con le mani posate sul ventre, diventa simbolo di creazione e di metamorfosi. Non si tratta soltanto di maternità, ma di una gestazione simbolica: il grembo come luogo di nascita di un nuovo paradigma identitario e culturale. L’ermafrodito floreale non partorisce un figlio, ma un futuro possibile, in cui le differenze non vengono cancellate ma integrate, come petali di una stessa corolla.
La resa cromatica intensifica la tensione simbolica: i toni caldi e profondi, tra il rosso delle rose e l’oro bruno della veste, evocano insieme sensualità e sacralità, passione e decoro liturgico. È come se l’artista avesse voluto mettere in scena una “sacra icona pagana”, in cui l’aura della religione si fonde con la forza della natura e con la corporeità senza filtri. La preziosità degli ornamenti al collo e alle orecchie rimanda a un’iconografia regale, ma il volto fermo e diretto, quasi ascetico, dissolve ogni compiacimento estetico e ci obbliga a confrontarci con lo sguardo enigmatico della figura.
Dal punto di vista concettuale, l’opera si inserisce pienamente nel percorso Iconoclastica: essa rompe gli idoli, non li distrugge, ma li reinventa. Qui l’icona sacra della Madonna gravida viene smontata e ricomposta in una figura ibrida, che non appartiene più a una devozione religiosa ma a una nuova mitologia della contemporaneità. L’iconoclastia, dunque, non è negazione, bensì trasfigurazione: l’artista non elimina l’aura, la sposta altrove, la conferisce a un corpo “altro”, liminale, che si fa veicolo di un messaggio radicalmente inclusivo.
In definitiva, “Allegoria dell’Ermafrodito Floreale” si configura come una potente meditazione sulla possibilità di trascendere i limiti imposti dal genere, dalla tradizione e dalla storia dell’arte, per approdare a una visione sincretica, fertile e poetica. È un’immagine che seduce e inquieta, che richiama la classicità e al tempo stesso la sovverte, che offre allo spettatore non un modello da imitare ma un enigma da abitare.
Dialogo con i Primitivi Fiamminghi
La prima suggestione che l’opera evoca è quella dei primitivi fiamminghi, in particolare Jan van Eyck. La cura minuziosa dei dettagli decorativi, la resa quasi tattile dei tessuti, la lucentezza vellutata delle superfici sono tratti che richiamano capolavori come l’“Arnolfini Portrait”. Anche lì la maternità (o la sua allusione) è resa attraverso un ventre prominente, simbolo di fertilità e continuità. Di Gregorio sembra raccogliere questa eredità e piegarla a un discorso più complesso: non più la donna borghese come garante della discendenza, ma un soggetto ibrido, ermafrodito, che destabilizza la funzione sociale del corpo femminile e ne propone una lettura più universale, quasi cosmica.
⸻
Confronto con Caravaggio
Il rapporto con Caravaggio si coglie soprattutto nell’uso del chiaroscuro. Lo sfondo scurissimo, da cui emerge la figura come in una rivelazione, è una scelta che richiama la teatralità del Seicento. Tuttavia, laddove Caravaggio metteva in scena la drammaticità dell’esperienza religiosa o umana con gesti dinamici e tensioni corporee, Di Gregorio opta per un’immobilità ieratica. È un realismo che si fa icona, dove la luce non svela la crudezza della carne, ma la trasfigura in presenza sacrale.
Eco dei Preraffaelliti
L’ornamento floreale e la dimensione simbolica riportano invece ai Preraffaelliti, che nell’Ottocento tornarono a una pittura densa di allegorie, intrisa di natura e poesia. L’uso della rosa come emblema di rigenerazione e sensualità è tipicamente preraffaellita. Ma Di Gregorio non indulge nella grazia malinconica di Rossetti o Millais: il suo floreale è più severo, quasi un’aureola laica, che sottolinea la forza ieratica della figura.
Eredità Rinascimentale e Iconoclastia
Sul piano iconografico, non si può non pensare alle Madonne rinascimentali, in particolare quelle di Piero della Francesca o di Leonardo, dove la maternità è al tempo stesso evento terreno e simbolo universale. Qui l’artista cita quell’archetipo, ma lo trasforma radicalmente: la maternità non è garantita da una figura femminile tradizionale, bensì da un corpo ermafrodito che si appropria dell’aura mariana per restituirla al nostro tempo. È qui che si manifesta l’iconoclastia di Di Gregorio: smonta il codice, lo rielabora e ne produce un mito nuovo.
Dimensione Contemporanea
Infine, l’opera si colloca nel dibattito contemporaneo sulle identità fluide e sulla rappresentazione del corpo. L’ermafrodito floreale diventa il simbolo di un’umanità che non ha più bisogno di scegliere tra maschile e femminile, tra sacro e profano, tra natura e cultura. In questo senso, Di Gregorio riprende la tradizione iconografica occidentale per portarla verso una nuova mitologia inclusiva, che accoglie differenza e molteplicità come principi fondativi.
👉 In sintesi, l’“Allegoria dell’Ermafrodito Floreale” si muove tra Van Eyck e i Preraffaelliti, tra Caravaggio e Piero della Francesca, raccogliendo frammenti della memoria artistica per riorganizzarli in un’immagine radicalmente nuova. L’opera è un palinsesto visivo, in cui la tradizione non viene cancellata, ma stratificata e trasformata in chiave iconoclastica e contemporanea.
Lettura Psicanalitica e Archetipica
L’Androgino come Archetipo (Jung)
Carl Gustav Jung individua nell’androgino una delle figure archetipiche fondamentali: la coniunctio oppositorum, l’unione degli opposti. L’ermafrodito, in questa prospettiva, non è soltanto un essere biologicamente ambiguo, ma rappresenta il punto culminante del processo di individuazione: la ricomposizione delle polarità maschile e femminile in un’unità superiore.
L’opera di Di Gregorio sembra incarnare esattamente questa tensione junghiana: la figura gravida e insieme ermafrodita diventa simbolo della possibilità di superare le scissioni che segnano l’esistenza — corpo/spirito, maschile/femminile, sacro/profano — per approdare a una totalità integrata.
Il Grembo come Matrice Simbolica
Dal punto di vista psicanalitico, il ventre gravido rimanda a una delle immagini più potenti dell’inconscio collettivo: il grembo materno, luogo di origine e di ritorno. Ma qui non è un grembo femminile tradizionale: è un grembo “altro”, che contiene in sé l’ibridazione e la molteplicità.
Questo rovescia le consuete dinamiche edipiche: non c’è un “ritorno alla madre” in senso regressivo, bensì l’apertura a una nuova nascita simbolica, a una rinascita dell’Io che si fa inclusivo e metamorfico.
Il Fiore come Simbolo di Sessualità e Trasformazione
I fiori che sbocciano sul capo e sulle vesti non sono soltanto ornamenti decorativi, ma potenti segni psichici.
•La rosa, da sempre legata all’eros e al mistero del sangue, diventa qui emblema della forza vitale e della sessualità rigeneratrice.
•L’aureola floreale sul capo trasforma la figura in un’icona naturale e pagana, sottraendola al puro contesto religioso per collocarla nel mito universale della fecondità e della trasformazione.
Dal punto di vista junghiano, il fiore rappresenta l’apertura dell’inconscio, il momento in cui l’Io si lascia attraversare da energie archetipiche che conducono al rinnovamento psichico.
Lo Sguardo come Enigma dell’Altro
Lo sguardo diretto e frontale della figura crea un corto circuito psichico con lo spettatore. Non è lo sguardo dolce e accogliente delle Madonne, né quello drammatico dei martiri barocchi: è uno sguardo fermo, enigmatico, che mette lo spettatore davanti al proprio stesso inconscio.
In termini lacaniani, potremmo dire che qui si manifesta l’“Altro radicale”: uno specchio perturbante che ci rimanda ciò che non vogliamo riconoscere di noi stessi, ovvero la nostra natura ibrida, plurale, contraddittoria.
La Coniunctio Oppositorum
In alchimia, la coniunctio oppositorum è il culmine del magnum opus, l’unione di zolfo e mercurio, sole e luna, maschile e femminile. L’ermafrodito alchemico è la figura che sintetizza questa unione, non come fusione indistinta, ma come equilibrio dinamico.
L’“Allegoria dell’Ermafrodito Floreale” si può leggere proprio come una tavola alchemica contemporanea: la gravidanza rappresenta la generazione di una nuova sostanza, il fiore l’apertura al ciclo vitale, lo sguardo lo specchio che interroga e trasforma l’anima di chi osserva.
Conclusione
L’opera di Luciano Di Gregorio non è solo un’immagine esteticamente potente, ma un archetipo visivo contemporaneo: unisce il linguaggio della storia dell’arte (Van Eyck, Caravaggio, i Preraffaelliti) con quello dell’inconscio collettivo (Jung, l’alchimia, l’androgino mitico).
Il risultato è una figura che ci mette di fronte a una verità psichica universale: non siamo unità semplici e definite, ma creature in divenire, ibridate, floreali, sempre in gestazione di noi stessi.
