La Città della Pace All’inizio era solo un pensiero, un lampo apparso osservando la Terra da lontano. Da lassù, persino dalla Luna, non si distingue più nulla: né la Cina, né l’Italia, né i confini. Solo una sfera azzurra che ruota silenziosa, fragile e perfetta. E guardandola da quella distanza, tutto sembra così semplice — come se i popoli potessero finalmente riconoscersi, come se le guerre, i rancori, le divisioni non avessero più senso. Da quell’immagine è nato il sogno: costruire un luogo dove la Terra potesse ricordarsi di essere una sola. Un luogo che non appartiene a nessuna nazione, ma le rappresenta tutte. Un luogo di pietra e luce, di mani e speranza. Sarebbe sorto in Italia, cuore del Mediterraneo, culla di arte e incontro di civiltà. Un grande cerchio di pietre, piantate come antenne millenarie nella terra, a evocare Stonehenge, l’Isola di Pasqua, i cerchi sacri dei popoli antichi. Un cerchio che raccoglie energia e la restituisce, come un respiro del pianeta. Il progetto si chiama “La Città della Pace”. Non è un monumento e nemmeno un parco: è un organismo vivente che cresce lentamente, anno dopo anno. Ogni nazione del mondo è invitata a partecipare: un artista, o un gruppo di artisti, scolpirà un proprio monolito. Pietre grezze che, poco a poco, prenderanno forma, raccontando le infinite lingue della pace. Immagina la scena: su due blocchi di pietra, uno accanto all’altro, un artista israeliano e uno palestinese lavorano insieme, fianco a fianco, mentre il rumore degli scalpelli si mescola al vento del mare. Altrove, un tibetano e un americano incidono simboli, un thailandese plasma una figura circolare, un africano scolpisce un volto che guarda verso il sole. Sotto ogni pietra, un nome e un Paese, come a dire: “noi c’eravamo”. Ogni anno verranno scolpiti una decina di monoliti. Ce ne vorranno vent’anni per completare il cerchio. Ma non importa, perché il tempo stesso fa parte dell’opera. Venti anni di lavoro, di incontri, di parole scambiate, di amicizie nate. Venti anni in cui la pace smetterà di essere un concetto astratto per diventare un cantiere, una costruzione reale. Nel frattempo, intorno al cerchio cresceranno altre strutture: musei, scuole, biblioteche, centri di ricerca, luoghi di dialogo e di accoglienza. Un’agorà contemporanea, un giardino planetario, una Manhattan della pace con al centro un grande spazio verde e intorno edifici che guardano al futuro. Non serve molto spazio: un paio di ettari bastano per accendere un sogno grande come il mondo. Ogni pietra sarà alta quattro o cinque metri, diverse per forma e colore. Alcune semplici, altre ardite come sculture moderne; altre ancora leggere come foglie. Ci saranno quelle imponenti, come quelle affidate ai Paesi più vasti — Russia, Cina, Stati Uniti — e quelle più piccole, ma non meno preziose, scolpite da nazioni minute, da isole lontane, da popoli dimenticati. Il fondatore del progetto — un artista visionario, un sognatore con la pazienza dei costruttori antichi — ha scritto lettere per anni. Lettere ai presidenti, ai ministri, ai magnati, alle regine. Alcuni hanno risposto. Dal Cile, dal Qatar, persino dalla moglie dell’emiro, che con parole gentili chiese di sapere di più. E ogni risposta, anche la più breve, è diventata un piccolo tassello del sogno. Certo, qualcuno potrà dire che è un progetto megalomane. Ma non è forse megalomane ogni visione che vuole unire l’umanità? Non lo fu anche Alessandro quando fondò Alessandria d’Egitto per lasciare al mondo un segno d’eternità? E allora sì: La Città della Pace è un sogno grande, smisurato, ma possibile. Un giorno, il Paese che la ospiterà potrà dire di custodire l’ottava meraviglia del mondo: un luogo dove tutte le nazioni della Terra hanno lasciato la loro impronta, non per dominare, ma per costruire insieme. Un luogo dove la pietra diventa preghiera, e la mano che scolpisce diventa linguaggio universale. Un luogo che non cancella le guerre, ma le sovrasta con la bellezza. E mentre il sole si abbassa sull’orizzonte, e le ombre dei monoliti si allungano sulla terra, una luce nuova — la stessa che un tempo guidava i popoli antichi — torna a brillare: la luce dell’uomo che, per un istante, ricorda chi è davvero.
Marilù Giannantonio: Visioni Psichedeliche e Colori in Movimento
L’arte di Marilù Giannantonio è un viaggio nell’immaginazione, un percorso in cui il colore diventa strumento di esplorazione interiore e la tela si trasforma in uno spazio dove forme e suggestioni si rincorrono senza mai stancare l’occhio. La sua carriera nasce presto, ai tempi della scuola media, quando le fu consigliato di frequentare il liceo artistico, scelta che la porterà poi all’Accademia di Belle Arti di Roma, sezione scenografia. Giannantonio predilige la pittura ad olio, tecnica che definisce “più plasmabile e sfumata”, capace di dare vita a effetti di colore ricchi e avvolgenti. Tuttavia, non si limita a un solo mezzo: lavora anche a tempera, acrilico e perfino solo a matita, scegliendo di volta in volta il linguaggio più adatto all’opera. Per lei dipingere è un atto totalizzante, quasi fisico: “Quando dipingo sono in tensione, fino a quando non finisco il quadro non sto bene. Ci penso e mi concentro”. La sua pittura, come si vede nell’opera in visione, è un’esplosione di forme e cromie. Elementi sinuosi, quasi organici, si intrecciano a figure geometriche e spazi surreali, creando un effetto psichedelico e dinamico. I colori si collocano in contrasti vibranti, raccontando una realtà “moderna, fantastica ma anche solida”. La pop art è per lei il massimo dell’esperienza moderna, ma non disdegna il surrealismo, che considera una teoria sempre attuale. Giannantonio non lavora con bozzetti preliminari: parte direttamente dalla tela, abbozzando con la matita per poi lasciarsi guidare dal colore. Questa spontaneità le permette di esprimere la sua interiorità senza filtri, senza condizionamenti esterni: “Consiglio ai giovani che vogliono intraprendere questa carriera di lavorare da soli senza avere influenze di qualcuno o qualcosa, neanche storica”. La soddisfazione più grande, racconta, è stata partecipare a mostre e vedere le proprie opere pubblicate nei cataloghi accanto a quelle di altri artisti. Il rapporto con gallerie e collezionisti è per lei strettamente professionale, e i suoi progetti futuri restano fedeli a un’idea di espressione libera e personale: “Tra 5 o 10 anni mi vedo più matura ma probabilmente sempre uguale”. La musica è sua compagna inseparabile, fonte di ispirazione costante. E mentre un nuovo quadro attende di essere terminato, Giannantonio continua il suo percorso artistico con la stessa tensione creativa di sempre, alla ricerca di un dialogo con il pubblico, perché “mi interessa il giudizio del pubblico” dice, consapevole che la sua pittura vive davvero solo quando viene guardata, interpretata e amata.
Il volto e la memoria: materia, assenza e intimità nell’opera
In questa opera in bianco e nero, corrosa e lirica, assistiamo a una potente fusione tra immagine e superficie, tra volto umano e parete consumata. L’opera, che sembra nascere da un processo misto di stampa, deterioramento e manipolazione materica, esprime un’intensità che va oltre la pura rappresentazione: qui la fotografia diventa pelle, traccia, ferita. Il volto femminile, con gli occhi chiusi e le labbra leggermente dischiuse, appare immerso in uno stato di sospensione meditativa, quasi mistica. Eppure non siamo davanti a un semplice ritratto: il viso affiora dalla superficie come un’epifania fragile, parzialmente cancellata, aggredita da muffe visive, da scrostature e graffi che non nascondono ma rivelano. La materia stessa dell’immagine diventa parte del linguaggio espressivo. Il supporto mostra segni evidenti di usura e deterioramento. L’effetto finale è quello di una memoria fotografica contaminata dal tempo, come se l’immagine fosse stata dimenticata in uno scantinato umido e solo ora riportata alla luce, senza restauri. I residui della parete – gocce, colature, macchie – si fondono con i tratti della ragazza, fino a far pensare che si tratti di una fusione tra carne e muro, tra identità e rovina. L’opera interroga così il rapporto tra soggettività e oblio, tra presenza e cancellazione. Il volto della giovane non ci guarda: non si offre allo spettatore, ma si raccoglie in sé stesso. In questa chiusura silenziosa risiede una forza che si oppone allo sguardo dominante. È un rifiuto della visibilità, un gesto di difesa poetica. La fotografia evoca anche i procedimenti del pittura informale e della materia astratta, così come le tecniche di fotografia sperimentale e decollage. Si potrebbe pensare a Mimmo Rotella o a Francis Bacon in chiave fotografica. Ma a differenza della violenza espressiva di quegli autori, qui tutto è racchiuso in una malinconia intima, in un velo di silenzio che si estende dalla figura allo sfondo. In definitiva, l’opera ci parla dell’essere umano come traccia, come fragile apparizione destinata a svanire, ma proprio per questo ancora più preziosa. In questa intensa immagine in bianco e nero, il volto di una giovane donna emerge come un’apparizione fragile da una superficie corrosa dal tempo. Macchie, colature e abrasioni non occultano l’immagine: la completano. L’opera, sospesa tra ritratto e decollage, trasforma la materia fotografica in pelle e memoria. Con gli occhi chiusi, la figura si raccoglie in un silenzio interiore, sottraendosi allo sguardo. È un’immagine intima, segnata, che parla di assenza, vulnerabilità e persistenza. Tra pittura informale e fotografia sperimentale, questo lavoro sussurra che anche ciò che si dissolve, resiste.
Addio All’Artista Dino Colalongo…altra pietra miliare del Liceo Artistico Misticoni di Pescara.
Con profondo dolore apprendiamo della scomparsa di Dino Colalongo, artista, architetto e designer, figura di riferimento per generazioni di studenti e per la scena culturale abruzzese. Nato a Manoppello il 31 marzo 1946, Colalongo si è laureato in Architettura a Pescara, per poi dedicare con passione la sua vita all’arte e all’insegnamento, ricoprendo per anni il ruolo di docente di Discipline Pittoriche e Educazione Visiva presso il Liceo Artistico Statale “Giuseppe Misticoni”. Dal 1967, le sue opere sono state esposte in numerose mostre personali e collettive, sia in Italia che all’estero, tracciando un percorso artistico sempre coerente, aperto alla ricerca e al dialogo con il contemporaneo. Negli ultimi anni, il Museo delle Genti d’Abruzzo gli ha dedicato una significativa personale (2019), mentre la Fondazione ARIA lo ha celebrato come primo protagonista del ciclo “Specchio Arte”, con un cortometraggio, un video ritratto e un’ampia documentazione nel volume Crossroads – Fondazione ARIA. Crocevia d’artisti e culture. Dino Colalongo lascia un vuoto profondo nel mondo dell’arte, ma anche un’eredità preziosa fatta di visione, rigore e umanità.
Esplorazione del Paesaggio Mentale: Un’Opera di Contrasti in Bianco e Nero
Introduzione al Concetto di Paesaggio Mentale Il termine ‘paesaggio mentale’ si riferisce a un costrutto artistico e psicologico che racchiude le esperienze soggettive dell’artista e del suo pubblico. Tale concetto invita a riflettere su come le percezioni e le emozioni individuali possano influenzare la nostra interpretazione di opere d’arte, rendendo ogni visione unica. In ambito artistico, il paesaggio mentale emerge come una rappresentazione visiva dei sentimenti e delle sensazioni interiori, offrendo un riflesso del complesso mondo psichico. Attraverso le diverse tecniche, l’artista riesce a comunicare stati d’animo, conflitti e impatti emotivi attraverso la propria opera. È interessante notare come, per molti artisti, il processo creativo rappresenti un viaggio all’interno della propria mente, esplorando gli angoli più reconditi della psiche. In questo senso, il paesaggio mentale diventa un mezzo attraverso il quale si esprime una narrazione interna, traducendo l’indefinito in forme concretizzate. Le emozioni, spesso indescrivibili attraverso le parole, trovano un’espressione palpabile nei tratti e nelle sfumature di colori che caratterizzano le opere. Inoltre, il pubblico è invitato a relazionarsi con l’opera, leggendo il proprio paesaggio mentale e avvicinandosi a un dialogo emotivo con l’artista. Per quanto riguarda la tecnica utilizzata, la pittura ad olio è particolarmente significativa nel creare atmosfere evocative e nella manipolazione delle luci e delle ombre. Questa forma d’arte, grazie alla sua versatilità, permette di realizzare approfondimenti visivi che rispecchiano l’intensità delle emozioni e dei concetti presentati. La pittura ad olio riesce a dare vita a una profondità e a una ricchezza di tonalità che sostengono ulteriormente il paesaggio mentale, trasformandolo in un’esperienza visiva coinvolgente e commovente. In questo contesto, il paesaggio mentale non è solo un artefatto, ma un’esperienza emotiva condivisa, un ponte tra l’artista e lo spettatore. L’Opera: Descrizione e Tecnica L’opera in esame, di dimensioni 80×80 cm, si distingue per l’uso audace e raffinato del bianco e nero, il che consente di porre in risalto l’interazione dei pochi elementi presenti nel paesaggio. Questa scelta cromatica conferisce all’opera una sensazione di profonda introspezione, mentre l’assenza di colori vivaci costringe lo spettatore a concentrarsi sulle forme e sulle trame. In un contesto artistico in cui il colore è spesso utilizzato come il principale strumento di espressione, l’artista ha optato per un approccio minimalista, trasformando la semplicità in una forza visiva potente. La composizione del dipinto presenta sparsi elementi che, sebbene distanti tra loro, riescono a creare un equilibrio visivo sorprendente. Ogni singolo componente è stato selezionato con attenzione e posizionato strategicamente per favorire la coesione dell’opera. Questo equilibrio è ulteriormente accentuato dall’uso di tecniche di chiaroscuro che conferiscono profondità e dimensione, rendendo il paesaggio apparentemente semplice, ma ricco di significato. La tecnica utilizzata per la creazione dell’opera è basata sulla pittura ad olio, medium noto per la sua capacità di produrre sfumature ricche e texture complesse. L’artista ha iniziato con la preparazione della tela, applicando uno strato di fondo che permette ai colori di aderire in modo ottimale e di esaltarsi. Ogni applicazione di colore è stata eseguita con cura, utilizzando pennelli e spatole per creare variazioni di tonalità e texture. Questo approccio ha permesso di evidenziare vari aspetti del paesaggio, creando così un’esperienza visiva che invita alla meditazione e alla riflessione. Interpretazione e Messaggio dell’Opera L’opera in bianco e nero rappresenta un intrigante paesaggio mentale, il quale si distingue per la sua apparente semplicità formale. Tuttavia, sebbene la composizione possa sembrare minimalista, essa evoca una complessità emotiva profonda. Questo contrasto tra forma e contenuto invita gli osservatori a esplorare non solo il lavoro stesso, ma anche il proprio stato d’animo mentre lo contemplano. L’assenza di dettagli intricati può essere interpretata come un invito alla libertà di interpretazione, permettendo a ciascun individuo di immergersi nelle proprie riflessioni. È importante notare che il paesaggio mentale può generare risposte emotive diverse a seconda dell’esperienza personale di chi osserva. Per alcuni, la scena potrebbe risvegliare sentimenti di nostalgia, mentre per altri, potrebbe evocare un senso di serenità. Questo potenziale per l’interpretazione varia indica quanto possa essere potente e versatile un’opera d’arte, in particolare quando gioca con contrasti visivi così fondamentali. La dualità fra il semplice e il complesso offre così un richiamo all’introspezione, in cui l’osservatore è incoraggiato a confrontarsi con le proprie emozioni e pensieri. In aggiunta, l’opera può essere vista come una riflessione sulle conflittualità interne dell’essere umano. Il paesaggio, pur essendo privo di elementi decorativi superflui, riesce a rappresentare la tumultuosità delle esperienze umane. Ogni osservazione del quadro diviene un gesto di ricerca; si cerca una connessione, una comprensione che vada oltre l’aspetto visivo per abbracciare l’essenza emotiva che l’artista intendeva comunicare. Così facendo, il messaggio dell’opera si espande, aprendo la porta a innumerevoli interpretazioni basate sul vissuto di ciascun osservatore. Conclusione Nell’era dell’arte contemporanea, l’essenzialità emerge come un valore fondamentale, permettendo opere con pochi elementi di esprimere concetti complessi e profondi. In un mondo saturo di stimoli visivi e informazioni, l’arte minimalista invita l’osservatore a focalizzarsi sull’essenza stessa dell’esperienza artistica, promuovendo una connessione più intima con le emozioni e i pensieri che essa evoca. Queste opere, spesso caratterizzate da contrasti in bianco e nero, riescono a catturare l’attenzione dell’osservatore, facilitando un viaggio attraverso il “paesaggio mentale” dell’artista e, allo stesso tempo, permettendo al pubblico di riflettere sulle proprie emozioni e sul significato dell’arte stessa. Il ‘paesaggio mentale’, come concetto artistico, rappresenta uno strumento potente di introspezione, che porta l’osservatore a valutare le proprie esperienze interiori. Le opere d’arte, ridotte all’essenziale, riescono a far emergere un dialogo interiore, stimolando una riflessione su come percepiamo e interagiamo con il mondo. Questo approccio all’arte, che privilegia l’intimità e la comunicazione diretta, evidenzia la bellezza della semplicità e l’importanza di ciò che non è detto. La riduzione degli elementi visivi non è sinonimo di povertà espressiva, ma al contrario, rappresenta una scelta deliberata che può rivelarsi estremamente significativa. In conclusione, invitando il pubblico a un’autoanalisi critico, si suggerisce di esplorare le proprie interpretazioni del paesaggio mentale, considerandone non solo l’estetica, ma anche la capacità di comunicare sentimenti e stati d’animo. La ricerca dell’essenziale nell’arte può condurre a una
