RINASCIMENTO 2.0: L’Androginismo come Icona Contemporanea

All’interno del ciclo ICONOCLASTICA, l’artista Luciano Di Gregorio ci regala con Rinascimento 2.0 una riflessione radicale sul rapporto tra identità, storia e tecnologia. L’opera, realizzata con la precisione di un antico maestro e la visione di un autore post-digitale, ci trasporta in un universo sospeso dove il passato e il futuro convivono senza frizioni. L’immagine colpisce subito per la sua impostazione classica: la posa frontale, la ricca veste rinascimentale, il velo che scivola come un fiume di organza. Tutto rimanda a un ideale di bellezza e compostezza che evoca i ritratti femminili del Quattrocento. Eppure, è proprio in questa cornice familiare che si innesta l’elemento dirompente: le cuffie futuristiche che incoronano il capo, illuminate da un bagliore blu elettrico, due rose rosse come un sigillo romantico. Di Gregorio mette così in scena un corpo androgino, sospeso tra maschile e femminile, tra carne e tecnologia. Il volto privo di capelli e tratti marcati ci spinge a interrogarci: chi è questa figura? Una dama, un cavaliere, un avatar? L’ambiguità diventa il cuore dell’opera, simbolo di una contemporaneità che rifiuta le categorie nette, preferendo fluire tra identità, ruoli e tempi storici. Il piccolo animale stretto fra le mani – un furetto dal manto dorato – richiama la tradizione leonardesca (La dama con l’ermellino), ma qui diventa quasi un compagno totemico, testimone silenzioso della metamorfosi culturale in atto. La sua presenza attenua la severità del ritratto, creando un contrappunto di tenerezza che umanizza l’intera scena. Dal punto di vista concettuale, Rinascimento 2.0 è un manifesto visivo. Ci ricorda che il Rinascimento, periodo di rinascita e riscoperta dell’umano, trova oggi una nuova forma nella fusione tra tradizione e futuro. La tecnologia – lungi dall’essere mera intrusione – diventa estensione identitaria, un nuovo “ornamento” che ridefinisce il nostro modo di abitare il corpo e il tempo. L’opera di Di Gregorio si inserisce con forza nel dibattito sull’androginismo come categoria estetica e sociale, proponendo un’immagine potente, solenne ma al tempo stesso aperta, capace di dialogare con chi osserva. Non si tratta di un semplice gioco anacronistico: è un invito a ripensare la nostra epoca, i suoi confini e i suoi simboli. Con Rinascimento 2.0, l’artista firma un’opera che è insieme omaggio, provocazione e profezia. Un ritratto che sembra dirci: il futuro è già qui, e ha il volto di chi non teme di essere molte cose allo stesso tempo. RINASCIMENTO 2.0: L’Androginismo come Icona Contemporanea All’interno del ciclo ICONOCLASTICA, l’artista Luciano Di Gregorio ci regala con Marilù Giannantonio: Visioni Psichedeliche e Colori L’arte di Marilù Giannantonio è un viaggio nell’immaginazione, un percorso in Musica per il Paradiso – Iconoclastica L’immagine che osserviamo, parte del ciclo “Iconoclastica” di Luciano Di Gregorio, Musique d’Opéra: il silenzio dell’ascolto Musique d’Opéra: il silenzio dell’ascoltoUn viaggio visivo nell’universo di Luciano Di

Musique d’Opéra: il silenzio dell’ascolto

Musique d’Opéra: il silenzio dell’ascolto Un viaggio visivo nell’universo di Luciano Di Gregorio Con la serie Iconoclastica, Luciano Di Gregorio ha intrapreso un percorso che mette in discussione, celebra e al tempo stesso reinventa il linguaggio dell’immagine, restituendo alla fotografia la forza di un’icona contemporanea. Tra le opere più emblematiche, Musique d’Opéra si distingue come una riflessione poetica sull’ascolto e sulla sacralità dell’esperienza estetica. L’immagine raffigura una giovane figura femminile dai capelli rossi, avvolta in un abito semplice dal sapore antico. Le pieghe della veste e la posa delle mani, composte ma vibranti di tensione interiore, evocano immediatamente la pittura rinascimentale e barocca: i ritratti di scuola fiamminga, le Madonne quattrocentesche, la delicatezza dei volti preraffaelliti. Eppure, al centro della composizione, l’elemento dirompente: un paio di cuffie monumentali, ornate come reliquiari, racchiudono la testa della giovane, fiorita da rose rosse che emergono come corone simboliche. È qui che Di Gregorio mette in atto la sua iconoclastia: accosta l’immaginario sacro e quello profano, il linguaggio della tradizione pittorica e l’oggetto tecnologico della modernità. Le cuffie, di solito simbolo di isolamento e consumo rapido di suoni, si trasformano in strumento rituale, quasi sacramentale. Non più accessorio quotidiano, ma reliquia preziosa, capace di trasmettere non solo musica, ma un’esperienza spirituale. Il titolo Musique d’Opéra sottolinea l’intensità drammatica del gesto: non si tratta di un ascolto leggero o distratto, ma di un’immersione totale, di una partecipazione interiore che richiama la solennità del melodramma. Lo sguardo assorto della ragazza, sospeso tra malinconia e contemplazione, ci consegna l’immagine di un’anima catturata dal potere evocativo della musica. L’arte visiva e quella sonora qui si incontrano, generando un cortocircuito sinestetico: vediamo il silenzio, ma percepiamo l’eco del suono. Dal punto di vista estetico, Di Gregorio dimostra una padronanza assoluta della luce e del colore. I toni caldi, che oscillano tra l’ocra e il bruno, costruiscono un’atmosfera di intimità e raccoglimento, mentre i dettagli delle cuffie, finemente incisi, dialogano con la texture dei capelli e con le rose, in un raffinato gioco di corrispondenze materiche. Ogni elemento sembra sospeso in una dimensione fuori dal tempo, dove il passato e il presente convivono senza contraddirsi. Musique d’Opéra diventa così un’icona della contemporaneità: un ritratto che, pur attingendo al patrimonio figurativo della storia dell’arte, parla con urgenza al nostro presente. In un’epoca in cui l’ascolto è sempre più frammentato, l’artista ci invita a recuperare la profondità di un’esperienza estetica che sia totalizzante, trasformativa, quasi mistica. Luciano Di Gregorio, con la sua Iconoclastica, non distrugge le immagini: le reinventa, le interroga, le mette a confronto con la nostra epoca digitale, offrendo al pubblico un nuovo pantheon di icone laiche. Musique d’Opéra ne è un esempio folgorante: una fotografia che si fa pittura, un ritratto che si fa reliquia, un volto che si fa specchio di un’esperienza universale.

Chiave per l’infinito – Luciano Di Gregorio, ciclo Iconoclastica

C’è un silenzio sospeso, antico e moderno al tempo stesso, nell’opera di Luciano Di Gregorio Chiave per l’Infinito. Una figura ieratica si offre allo sguardo come una reliquia viva, un’icona che non racconta ma interroga, non consola ma inquieta. È un’immagine che nasce dalla tradizione pittorica europea – le luci soffuse dei fiamminghi, il rigore compositivo del Rinascimento, le suggestioni barocche – ma che subito tradisce ogni rassicurante classicismo per aprirsi a una dimensione altra, disturbante, spiazzante. La donna, o meglio l’archetipo umano che ci appare davanti, non ha capelli: la sua testa rasata la rende senza tempo, spogliata di identità anagrafiche, sociale o storica. È l’essere umano nudo e radicale, privato di orpelli, reso simbolo più che individuo. Sui suoi occhi una benda grezza, argentata, che stride con l’eleganza rinascimentale del colletto a gorgiera e delle maniche vaporose. Il nastro moderno, quasi industriale, è un gesto di rottura: un atto iconoclasta che nega la vista esteriore per spalancare quella interiore. Perché l’infinito non si guarda: si sente, si attraversa, si custodisce. Al collo, due gioielli dai toni caldi e sanguigni, ornati di perle: rosso e bianco, sangue e purezza, materia e spirito. Non semplici ornamenti, ma segnali di un alfabeto simbolico che parla di dualità e riconciliazione. Alle spalle, due grandi foglie secche, come ali precarie: non piume angeliche, ma natura che si trasforma in spiritualità. L’essere umano diventa così un ibrido tra corpo e allegoria, tra creatura terrena e figura alata. E poi le mani, ferme, eleganti, concentrate sul gesto di stringere una chiave dorata. Non una chiave qualunque, ma la chiave per l’infinito. È il cuore dell’opera, il suo sigillo. La chiave non apre una porta reale, ma indica un varco invisibile, interiore, forse mistico. È promessa e minaccia allo stesso tempo: possedere la chiave significa avere il potere, ma anche la responsabilità, di varcare una soglia che non tutti sono pronti ad attraversare. Il titolo stesso, Chiave per l’Infinito, ci guida verso questa lettura. Di Gregorio ci dice che l’arte non deve solo rappresentare: deve aprire, squarciare, spalancare possibilità. In questo ciclo, Iconoclastica, le immagini nascono dalla distruzione consapevole di icone passate per generare nuove icone, attuali e universali. Il volto bendato, i simboli in bilico tra sacro e profano, la teatralità della posa: tutto concorre a creare una nuova religiosità, non dogmatica ma esistenziale. Guardando quest’opera, lo spettatore si trova davanti a un enigma. La figura ci appare solenne, quasi divina, ma al tempo stesso fragile, resa vulnerabile dall’assenza di capelli, dall’assenza di occhi. È un’umanità che non ha certezze ma che stringe ancora una chiave. Un’immagine che non offre risposte ma che ci costringe a domandarci: qual è il nostro infinito? siamo pronti a varcarne la soglia? La forza di Chiave per l’Infinito sta proprio in questa tensione: tra bellezza e inquietudine, tra passato e presente, tra icona e iconoclastia. Luciano Di Gregorio costruisce una pittura che è al tempo stesso tecnicamente impeccabile e concettualmente perturbante, capace di collocarsi in un dialogo sotterraneo con la storia dell’arte e con la nostra interiorità. È un’opera che si guarda come si ascolta un oracolo: con timore, curiosità, reverenza. Non ci svela l’infinito, ma ci ricorda che esiste, e che forse la chiave è già nelle nostre mani.

Allegoria dell’Ermafrodito Floreale di Luciano Di Gregorio

L’opera di Luciano Di Gregorio, dal titolo “Allegoria dell’Ermafrodito Floreale” e appartenente al ciclo Iconoclastica, si presenta come un’immagine di grande forza simbolica e raffinata costruzione estetica. L’artista gioca consapevolmente con i codici visivi della ritrattistica rinascimentale e barocca, innestandoli in una dimensione concettuale contemporanea, fatta di tensioni identitarie, sovversione dei generi e ricerca di un nuovo canone iconografico. La figura centrale, rappresentata con un’impostazione frontale e ieratica, richiama la solennità delle madonne quattrocentesche e delle allegorie manieriste, ma si carica di un’intensità perturbante. Il corpo, reso con straordinaria cura pittorica nonostante la natura fotografica dell’opera, si staglia sul fondo scuro in un contrasto che esalta la luminosità della pelle e la preziosità del costume. La nudità del capo, privo di capelli, trasforma il volto in un terreno di assoluta neutralità: né maschile né femminile, ma sospeso in una condizione liminale che rompe le categorie binarie. È qui che l’artista innesta il concetto di ermafroditismo, non come mero dato biologico, ma come allegoria di un’identità fluida, fertile e trasformativa. L’elemento floreale, che dà titolo all’opera, non è semplice ornamento decorativo: le rose che sbocciano sul capo, come un’aureola carnale, e quelle che ricamano le maniche e la veste, suggeriscono un’idea di rigenerazione e di continuità vitale. La figura gravida, con le mani posate sul ventre, diventa simbolo di creazione e di metamorfosi. Non si tratta soltanto di maternità, ma di una gestazione simbolica: il grembo come luogo di nascita di un nuovo paradigma identitario e culturale. L’ermafrodito floreale non partorisce un figlio, ma un futuro possibile, in cui le differenze non vengono cancellate ma integrate, come petali di una stessa corolla. La resa cromatica intensifica la tensione simbolica: i toni caldi e profondi, tra il rosso delle rose e l’oro bruno della veste, evocano insieme sensualità e sacralità, passione e decoro liturgico. È come se l’artista avesse voluto mettere in scena una “sacra icona pagana”, in cui l’aura della religione si fonde con la forza della natura e con la corporeità senza filtri. La preziosità degli ornamenti al collo e alle orecchie rimanda a un’iconografia regale, ma il volto fermo e diretto, quasi ascetico, dissolve ogni compiacimento estetico e ci obbliga a confrontarci con lo sguardo enigmatico della figura. Dal punto di vista concettuale, l’opera si inserisce pienamente nel percorso Iconoclastica: essa rompe gli idoli, non li distrugge, ma li reinventa. Qui l’icona sacra della Madonna gravida viene smontata e ricomposta in una figura ibrida, che non appartiene più a una devozione religiosa ma a una nuova mitologia della contemporaneità. L’iconoclastia, dunque, non è negazione, bensì trasfigurazione: l’artista non elimina l’aura, la sposta altrove, la conferisce a un corpo “altro”, liminale, che si fa veicolo di un messaggio radicalmente inclusivo. In definitiva, “Allegoria dell’Ermafrodito Floreale” si configura come una potente meditazione sulla possibilità di trascendere i limiti imposti dal genere, dalla tradizione e dalla storia dell’arte, per approdare a una visione sincretica, fertile e poetica. È un’immagine che seduce e inquieta, che richiama la classicità e al tempo stesso la sovverte, che offre allo spettatore non un modello da imitare ma un enigma da abitare. Dialogo con i Primitivi Fiamminghi La prima suggestione che l’opera evoca è quella dei primitivi fiamminghi, in particolare Jan van Eyck. La cura minuziosa dei dettagli decorativi, la resa quasi tattile dei tessuti, la lucentezza vellutata delle superfici sono tratti che richiamano capolavori come l’“Arnolfini Portrait”. Anche lì la maternità (o la sua allusione) è resa attraverso un ventre prominente, simbolo di fertilità e continuità. Di Gregorio sembra raccogliere questa eredità e piegarla a un discorso più complesso: non più la donna borghese come garante della discendenza, ma un soggetto ibrido, ermafrodito, che destabilizza la funzione sociale del corpo femminile e ne propone una lettura più universale, quasi cosmica. ⸻ Confronto con Caravaggio Il rapporto con Caravaggio si coglie soprattutto nell’uso del chiaroscuro. Lo sfondo scurissimo, da cui emerge la figura come in una rivelazione, è una scelta che richiama la teatralità del Seicento. Tuttavia, laddove Caravaggio metteva in scena la drammaticità dell’esperienza religiosa o umana con gesti dinamici e tensioni corporee, Di Gregorio opta per un’immobilità ieratica. È un realismo che si fa icona, dove la luce non svela la crudezza della carne, ma la trasfigura in presenza sacrale. Eco dei Preraffaelliti L’ornamento floreale e la dimensione simbolica riportano invece ai Preraffaelliti, che nell’Ottocento tornarono a una pittura densa di allegorie, intrisa di natura e poesia. L’uso della rosa come emblema di rigenerazione e sensualità è tipicamente preraffaellita. Ma Di Gregorio non indulge nella grazia malinconica di Rossetti o Millais: il suo floreale è più severo, quasi un’aureola laica, che sottolinea la forza ieratica della figura. Eredità Rinascimentale e Iconoclastia Sul piano iconografico, non si può non pensare alle Madonne rinascimentali, in particolare quelle di Piero della Francesca o di Leonardo, dove la maternità è al tempo stesso evento terreno e simbolo universale. Qui l’artista cita quell’archetipo, ma lo trasforma radicalmente: la maternità non è garantita da una figura femminile tradizionale, bensì da un corpo ermafrodito che si appropria dell’aura mariana per restituirla al nostro tempo. È qui che si manifesta l’iconoclastia di Di Gregorio: smonta il codice, lo rielabora e ne produce un mito nuovo. Dimensione Contemporanea Infine, l’opera si colloca nel dibattito contemporaneo sulle identità fluide e sulla rappresentazione del corpo. L’ermafrodito floreale diventa il simbolo di un’umanità che non ha più bisogno di scegliere tra maschile e femminile, tra sacro e profano, tra natura e cultura. In questo senso, Di Gregorio riprende la tradizione iconografica occidentale per portarla verso una nuova mitologia inclusiva, che accoglie differenza e molteplicità come principi fondativi. 👉 In sintesi, l’“Allegoria dell’Ermafrodito Floreale” si muove tra Van Eyck e i Preraffaelliti, tra Caravaggio e Piero della Francesca, raccogliendo frammenti della memoria artistica per riorganizzarli in un’immagine radicalmente nuova. L’opera è un palinsesto visivo, in cui la tradizione non viene cancellata, ma stratificata e trasformata in chiave iconoclastica e contemporanea. Lettura Psicanalitica e Archetipica L’Androgino come Archetipo (Jung) Carl Gustav Jung individua nell’androgino una delle figure archetipiche

Lo Sbeffeggio Ludopatico – Un’irriverenza necessaria

Lo Sbeffeggio Ludopatico – Un’irriverenza necessaria Ciclo ICONOCLASTICA di Luciano Di Gregorio Nel panorama dell’arte contemporanea, l’opera “Lo Sbeffeggio Ludopatico” di Luciano Di Gregorio, appartenente al ciclo ICONOCLASTICA, si impone come un cortocircuito visivo e concettuale, capace di fondere ironia e critica sociale in un’unica, sorprendente immagine. Il fotografo costruisce un ritratto che richiama la pittura fiamminga e barocca, per impostazione luministica e per la rigidità teatrale della posa. Tuttavia, la compostezza viene subito incrinata da elementi di dissonanza: la bambina mostra la lingua con un ghigno beffardo, tiene un pastello tra i denti come fosse un’arma giocosa, e soprattutto indossa un collare elisabettiano decorato da piccoli cuori, segni di una giocosa decadenza. Sul capo, a completare l’atto iconoclasta, un fragile castello di carte: simbolo del vizio, della precarietà, e della compulsione ludica. Di Gregorio gioca volutamente con la tensione tra codici alti e bassi, tra il rigore delle convenzioni estetiche e la carica dissacrante del gesto infantile. L’immagine diventa così un’allegoria della ludopatia: un gioco che non è più innocente, che trasforma il divertimento in ossessione, e che qui viene ridicolizzato, privato della sua aura tragica attraverso lo sberleffo. Il titolo stesso, Lo Sbeffeggio Ludopatico, è un ossimoro concettuale: la malattia sociale del gioco d’azzardo, una delle nuove schiavitù del nostro tempo, viene affrontata con leggerezza, come se un bambino la irridesse con la lingua di fuori. È proprio in questo scarto che risiede la forza dell’opera: la critica non passa per il moralismo, ma per la risata, per la parodia che disarma. L’artista, con il ciclo ICONOCLASTICA, sembra proporre una riflessione più ampia sul ruolo dell’immagine oggi: icona e idolo da distruggere, smontare, desacralizzare. Come un’eco lontana di Dada e Surrealismo, ma attualizzata nella fotografia concettuale, Di Gregorio ridisegna i confini tra sacro e profano, tra arte alta e cultura pop, tra dramma e gioco. In definitiva, “Lo Sbeffeggio Ludopatico” non è solo un ritratto ironico: è un atto politico, un invito a guardare in faccia le contraddizioni del presente senza paura di riderne. Perché, come l’artista sembra suggerire, anche la risata può essere un’arma iconoclastica.

La fragilità del mito alato – Luciano Di Gregorio vince il Premio Caramanico Terme 2025 – Sezione Fotografia e Digital Art

La fragilità del mito alato Luciano Di Gregorio vince il Premio Caramanico Terme 2025 – Sezione Fotografia e Digital Art Il 23 agosto 2025, nelle atmosfere dense di memoria dell’ex Convento delle Clarisse Caramanico Terme (PE), si è svolta l’VIII edizione del Premio Caramanico Terme, una rassegna ormai punto di riferimento per le arti visive contemporanee in Abruzzo. La manifestazione, capace di coniugare tradizione e sperimentazione, ha premiato quest’anno, per la sezione dedicata alla Fotografia e Digital Art, l’opera Fragilità (2022) di Luciano Di Gregorio. L’opera Di Gregorio presenta un cavallo alato, reminiscenza mitologica di Pegaso, riletto in chiave contemporanea attraverso un linguaggio ibrido che fonde fotografia, manipolazione digitale e stratificazione pittorica. La figura emerge come un’apparizione lacerata: il corpo equino, attraversato da venature incandescenti e da fenditure di luce, appare fragile e allo stesso tempo possente. La superficie è incrinata da frammenti, piume e scintille rosse che evocano energia vitale, ma anche vulnerabilità e caducità. L’animale mitico non è più simbolo di pura elevazione eroica: il suo slancio sembra spezzato, contaminato da elementi organici e da tracce materiche che riportano il sogno a una condizione terrena. In questo senso il titolo, Fragilità, si fa chiave interpretativa: il mito sopravvive, ma non come icona intatta, bensì come corpo vivo, ferito, continuamente in trasformazione. Critica e visione L’opera di Di Gregorio si colloca in una linea di ricerca che interroga il rapporto tra mito e contemporaneità, tra eternità simbolica e precarietà del presente. L’uso della digital art non è qui esercizio estetico, ma linguaggio capace di tradurre la tensione del nostro tempo: l’energia della creazione e la disgregazione che la accompagna. La composizione, che alterna pieni e vuoti, coaguli cromatici e spazi rarefatti, rivela una sensibilità che guarda tanto alla pittura informale quanto alle possibilità generative del digitale. L’effetto finale è quello di un’immagine pulsante, in equilibrio tra attrazione e inquietudine, dove lo spettatore è invitato a riconoscere la fragilità come valore e come esperienza universale. Il contesto dell’evento Il Premio Caramanico Terme si conferma così un laboratorio privilegiato per la riflessione artistica. La scelta dell’ex Convento delle Clarisse Caramanico Terme come sede non è casuale: un luogo che incarna la stratificazione storica e che diventa contenitore ideale per opere capaci di dialogare con il tempo, rinnovando significati e immaginari. L’assegnazione a Luciano Di Gregorio del primo premio per la sezione Fotografia e Digital Art segna un riconoscimento importante alla ricerca contemporanea che, pur muovendosi tra pixel e algoritmi, non dimentica la forza archetipica delle immagini. Fragilità dimostra che il mito può rinascere, ma solo se accetta di mostrarsi nella sua vulnerabilità, specchio dell’umano e delle sue metamorfosi.

ICONOCLASTICA: tra sacro e profano, il volto dell’umano a Caramanico (PE)

ICONOCLASTICA è una raccolta visiva creata dall’artista Luciano Di Gregorio per la Rivista Artelogia.it che scardina i confini tra tradizione e contemporaneità, rievocando l’iconografia religiosa con un linguaggio carico di simboli perturbanti. L’insieme delle immagini non è una semplice galleria di ritratti: è una liturgia visiva che mette in scena i corpi, i volti e i simboli come campo di battaglia tra il divino e il terreno, tra la venerazione e la dissacrazione. Le. opere saranno esposte in occasione della mostra IL PENSIERO GENERA LA MATERIA all’Ex Convento delle Clarisse, Caramanico Terme (PE) 🗓 23 – 31 Agosto 2025 La ferita del sacro Alcuni volti femminili, segnati da lividi e avvolti in panneggi pallidi, richiamano i martiri delle pale rinascimentali. Lo sguardo spento o carico di dolore richiama la tradizione cristiana della “Pietà”, ma senza consolazione: non vi è redenzione, solo esposizione della fragilità umana. Qui l’aura sacra è ridotta a reliquia estetica, e la spiritualità si trasforma in carne martoriata. Archetipi rielaborati Le madonne, i santi, i re maghi: tutti gli archetipi religiosi sembrano riapparire, ma filtrati da una lente contemporanea che li rende ambigui e inquietanti. La madre che stringe un bambino e al contempo una candela-globo ardente diventa emblema della maternità come custodia del mondo e, insieme, del suo inevitabile consumo. Il riferimento alla Vergine con il Bambino si rovescia in un’icona apocalittica, in cui la devozione lascia spazio al presagio. Corpi eretici Ci sono figure androgine, vestite di fiori o avvolte in abiti neri ricamati di simboli esoterici. Il corpo si fa veicolo di metamorfosi: non più un’identità fissa ma un terreno di contaminazione. L’albino con la donnola richiama Leonardo e i ritratti quattrocenteschi, ma il dettaglio contemporaneo – il trucco, la posa teatrale – apre una breccia ironica e disturbante nella citazione. L’iconoclastia come gesto critico Non mancano i richiami satirici, come il clown vestito da papa che fa il gesto della preghiera mentre mostra la lingua in maniera blasfema. Qui l’iconoclastia è esplicita: la liturgia si trasforma in maschera grottesca, smascherando il potere delle istituzioni religiose ridotte a spettacolo. È un’irriverenza che non nega il sacro, ma lo smonta pezzo per pezzo, costringendoci a interrogare la sua persistenza nella cultura visiva. Un’estetica barocca digitale Esteticamente, le immagini sembrano citare il barocco pittorico: chiaroscuri profondi, panneggi fluidi, pose solenni. Tuttavia, il mezzo fotografico e la manipolazione digitale ne alterano l’aura, trasformandoli in un teatro visivo in cui ogni elemento – un serpente azzurro, un corno, un velo, una fioritura impossibile – diventa simbolo. È un barocco contemporaneo, iperreale, che non rappresenta il divino ma la sua assenza. Conclusione ICONOCLASTICA è un atlante visivo che non cerca di distruggere le icone, ma di rivelarne la potenza residua. Nel farlo, le svuota di dogmi e le riempie di nuove contraddizioni: il sacro diventa politico, il corpo diventa tempio e ferita, la fede diventa teatro. Non è un atto di blasfemia, ma un atto di verità: mostrare come, anche nel nostro presente secolarizzato, viviamo ancora immersi in un immaginario che non sappiamo abbandonare.  

Addio a Gianni Berengo Gardin, l’occhio poetico del Novecento

Addio a Gianni Berengo Gardin, l’occhio poetico del Novecento È con profondo rispetto che ricordiamo Gianni Berengo Gardin, celebre fotografo italiano scomparso negli scorsi giorni all’età di 94 anni. Nato a Santa Margherita Ligure il 10 ottobre 1930, ha iniziato a esplorare il mondo della fotografia negli anni Cinquanta, pubblicando i suoi primi scatti sulla rivista Il Mondo  . Maestria e impegno sociale Autodidatta, Berengo Gardin ha attraversato l’Italia — da Venezia a Milano — costruendo la sua carriera con stile sobrio e narrativo. Ha portato avanti il reportage sociale con delicatezza, raccontando luoghi, persone e mestieri con chiarezza e profondità  . La sua presenza nel panorama fotografico è stata marcata da opere fondamentali: il reportage sul dramma dei manicomi, pubblicato nel volume Morire di classe (1969), ha segnato una svolta nella fotografia documentaria italiana  . Tra i premi conquistati, l’Oscar Barnack Award (1995) per la serie La disperata allegria e il prestigioso Lucie Award alla carriera (2008) testimoniano il suo rigore umano e professionale  . Lo sguardo sensibile e instancabile Denis Curti, curatore della sua retrospettiva alla Casa dei Tre Oci del 2013, ricorda un uomo che spariva ogni giorno per dedicarsi a nuovi scatti, come quello sulle grandi navi incalzanti a Venezia — un tema di denuncia anticipatore del turismo di massa  . Italo Zannier lo descrive come un osservatore della transizione italiana del dopoguerra, capace di documentare la campagna sfiorita e la vita contadina con passione e dignità  . La fotografia per lui era un mestiere artigianale e un atto di ascolto: viaggiava, guardava, poi scattava — scegliendo il punto di vista con l’empatia di un vero intellettuale visivo  . Un’eredità incancellabile Berengo Gardin ha lasciato alle generazioni future un’archivio monumentale — oltre 1,5 milioni di negativi — e un corpo di lavoro vastissimo, con più di 250 libri pubblicati e centinaia di mostre personali nel mondo  . La Fondazione FORMA e l’agenzia Contrasto gestiranno il suo lascito culturale, affinché non venga mai perduto  . Città del cuore: Venezia e Camogli Due città incarnano il suo spirito: Venezia, dove la fotografia è stata scoperta e amata, e Camogli, dove ha vissuto e trovato ispirazione. Lì ha custodito il suo lavoro, come un custode silenzioso di immagini e sogni  . In questo momento di addio, celebriamo Gianni Berengo Gardin non soltanto come maestro della fotografia italiana, ma come un narratore che ha saputo trasformare il quotidiano in poesia visiva. Il suo sguardo rimarrà per sempre, inciso nelle pagine della nostra memoria.

Tina Modotti: Una Vita tra Fotografia e Rivoluzione in Mostra a Roma

Fino al 21 settembre, il Museo di Roma in Trastevere ospita Tina Modotti. Donna, Fotografa, Militante. Una vita fra due Mondi, una mostra intensa e compatta dedicata a una delle figure più affascinanti del Novecento. Fotografa, attrice e attivista, Tina Modotti ha attraversato il secolo con passo rapido e deciso, lasciando un’impronta che oggi riemerge in tutta la sua potenza. Curata dall’associazione Storia e Memoria Aps in collaborazione con istituzioni italiane e messicane, l’esposizione ripercorre il breve ma folgorante cammino dell’artista friulana, nata a Udine nel 1896 e morta improvvisamente a Città del Messico nel 1942, in circostanze ancora oggi controverse. Oltre 60 tra fotografie, lettere e documenti illustrano il viaggio umano e artistico della Modotti: dagli inizi negli Stati Uniti come operaia e attrice, all’incontro decisivo con Edward Weston e l’approdo in Messico, dove l’arte fotografica si intreccia all’impegno politico. I suoi scatti – ritratti di lavoratori, nature morte, donne indigene – raccontano un’estetica essenziale, profondamente legata alla giustizia sociale. Modotti fu anche militante comunista, vicina a figure come Frida Kahlo, Diego Rivera e Siqueiros. Partecipò attivamente alla Guerra Civile Spagnola e, fino alla fine, visse tra arte, ideali e lotte. La mostra ne restituisce il volto sfaccettato: fragile e coraggioso, idealista e concreto, privato e pubblico. Un’occasione preziosa per riscoprire una figura chiave della fotografia del XX secolo, ponte tra due mondi – Italia e Messico – e testimone profonda di un’epoca di grandi trasformazioni.

Gaza: Il Genocidio del XXI Secolo … il Silenzio e la Vergogna delMondo

Gaza: Il Genocidio del XXI Secolo e il Silenzio della Politica Occidentale Di fronte a Gaza, il mondo ha fallito. E non per mancanza di prove, ma per mancanza di volontà. Da ottobre 2023, l’offensiva israeliana sulla Striscia di Gaza ha causato una catastrofe umanitaria senza precedenti nella storia recente del Medio Oriente. Secondo i dati più aggiornati forniti da fonti autorevoli come l’ONU, l’UNICEF, Amnesty International e Save the Children, decine di migliaia di civili palestinesi — tra cui un numero sconvolgente di bambini — sono stati uccisi, mutilati, sepolti vivi sotto le macerie o lasciati morire per mancanza di cibo, acqua e cure mediche. La crisi a Gaza ha ormai assunto i contorni di un genocidio. Genocidio: Non solo un’accusa politica, ma un termine giuridico Il termine genocidio non è un’etichetta ideologica, ma una definizione giuridica codificata dalla Convenzione delle Nazioni Unite per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (1948). Quando un popolo viene sistematicamente sterminato, perseguitato e privato dei mezzi essenziali di sopravvivenza in modo deliberato, non si tratta solo di una guerra. È genocidio. E questo è ciò che numerosi osservatori internazionali, giuristi e difensori dei diritti umani stanno denunciando con forza, dalla Corte Internazionale di Giustizia all’organizzazione Human Rights Watch. Il ruolo dell’Occidente: connivenza, silenzio, ipocrisia In mezzo a questo massacro, la politica occidentale ha scelto il silenzio o, peggio, la complicità. L’Italia, guidata da Giorgia Meloni, ha continuato a sostenere politicamente e militarmente Israele, nonostante i crimini documentati. Il governo italiano ha mantenuto e rafforzato rapporti commerciali, compresi quelli militari, senza alcun tipo di condanna formale o richiesta di cessate il fuoco. Lo stesso vale per gran parte dell’Unione Europea, che ha approvato 17 pacchetti di sanzioni contro la Russia per la guerra in Ucraina, ma non è riuscita ad approvarne nemmeno uno contro Israele, nonostante i crimini di guerra documentati e denunciati. Le uniche “sanzioni” dell’UE finora hanno colpito alcuni coloni estremisti in Cisgiordania, mentre l’esercito israeliano — responsabile delle operazioni a Gaza — è rimasto intoccato. Un’azione largamente simbolica, che non incide in alcun modo sul corso degli eventi. Bambini sotto le bombe Secondo Save the Children, oltre il 40% delle vittime a Gaza sono minori. Molti sono morti in bombardamenti mentre aspettavano aiuti umanitari, come nel caso della cosiddetta “strage degli aiuti”, in cui soldati israeliani hanno aperto il fuoco su civili in coda per ricevere cibo, rievocando immagini terribili della storia europea che credevamo archiviate per sempre. Due pesi, due misure L’ipocrisia politica dell’Occidente è evidente: se quanto avvenuto a Gaza fosse stato perpetrato da un altro attore — ad esempio la Russia — le reazioni sarebbero state drastiche e immediate. Ma nel caso di Israele, gli interessi geopolitici, economici e militari sembrano prevalere su qualsiasi principio di diritto internazionale o umanità. Conclusione: Il silenzio è complicità Quello che accade a Gaza non è una “tragedia”, è un crimine. Un crimine compiuto con armi, silenzi e giustificazioni offerte dall’Occidente. L’Italia, come altri paesi europei, avrà il dovere storico e morale di rispondere alle generazioni future: perché non avete fatto nulla mentre i bambini morivano a migliaia sotto le bombe? L’appello non è solo alla giustizia, ma alla coscienza. Il genocidio a Gaza non può essere ignorato, ridimensionato o derubricato a “effetto collaterale”. Ogni ora di silenzio è un’ora di complicità.