DI SPALLE dal ciclo “IBRIDO” di Luciano Di Gregorio Nel silenzio bianco dello spazio, il corpo umano si fa enigma. “Di Spalle” di Luciano Di Gregorio ribalta la consueta frontalità dello sguardo, invitandoci a contemplare ciò che di solito resta nascosto: la schiena, la superficie vulnerabile e forte dell’essere. L’immagine, priva di volto, priva di identità dichiarata, diventa una metafora della condizione contemporanea: un’umanità che si ritrae, che si protegge e allo stesso tempo si espone. Le mani, sospese nell’aria come in un gesto di invocazione o metamorfosi, amplificano la tensione del corpo — un corpo che non è più semplice anatomia ma linguaggio, segno, scultura viva. Nel ciclo IBRIDO, Di Gregorio esplora la fusione tra organico e concettuale, tra realtà e artificio digitale. Qui il corpo, pur essendo umano, si trasforma in una forma quasi scultorea, levigata e luminosa, come se fosse un materiale nuovo, un ibrido tra carne e idea. La pelle si fa marmo e luce, il movimento diventa icona. “Di Spalle” parla di assenza e di presenza, di distanza e di intimità. L’assenza del volto non è un vuoto, ma uno spazio aperto alla proiezione dello spettatore: chi guarda completa l’immagine, la abita, la riconosce.Nel gesto delle mani si avverte un’eco ancestrale, un richiamo al gesto artistico primigenio — quello di chi plasma, invoca, modella. Luciano Di Gregorio ci invita così a un rovesciamento dello sguardo: guardare “di spalle” significa andare oltre la superficie, scoprire il linguaggio silenzioso del corpo, lasciarsi toccare dal mistero dell’umano nell’epoca dell’ibridazione digitale.
“Sensazioni Addosso”: l’alchimia visiva di Luciano Di Gregorio tra memoria, icone e metamorfosi
Nel nuovo capitolo del ciclo ICONOCLASTICA, Luciano Di Gregorio ci consegna Sensazioni Addosso, un’opera che si impone come un’ode alla fragilità e alla potenza dell’immaginario. La figura femminile, sospesa tra il reale e il visionario, si presenta come un’apparizione: volto diafano, labbra carminio, colletto rinascimentale che sembra respirare da solo. Ma è sullo sfondo – e sulla pelle stessa del soggetto – che avviene la vera rivoluzione percettiva: una folla di presenze, impronte di colore e ombre aranciate, si sovrappongono al corpo trasformandolo in palinsesto emotivo. Di Gregorio lavora come un regista dell’inconscio: ogni dettaglio diventa vibrazione psichica. Le pennellate digitali e fotografiche, fuse in un unico respiro, raccontano di un’umanità molteplice, stratificata, che abita la stessa carne. È come se il corpo ritratto fosse un campo magnetico capace di attrarre memorie, sogni e paure collettive. Il titolo Sensazioni Addosso suggerisce una fisicità emotiva: ciò che proviamo non resta astratto, ma ci veste, ci avvolge, ci trasforma. In questa chiave l’opera diventa specchio della contemporaneità, dove l’individuo è continuamente attraversato da flussi di immagini, notizie e stimoli sensoriali. L’impianto compositivo rimanda al ritratto fiammingo e al Rinascimento italiano, ma l’approccio è decisamente post-digitale: il tempo pittorico si scontra con la rapidità dell’elaborazione fotografica, generando un cortocircuito tra tradizione e futuro. Questo è il cuore di ICONOCLASTICA: non distruggere le icone, ma re-immaginarle, scardinarle dall’immobilità per restituirle vive, pulsanti. Di Gregorio invita lo spettatore a non fermarsi alla superficie estetica, ma a percepire l’opera come esperienza sensoriale totale. Sensazioni Addosso non si guarda soltanto: si sente, si indossa, si respira.
Sguardo di piccola luce
Sguardo di piccola luce Dal ciclo “Iconoclastica” di Luciano Di Gregorio Con Sguardo di piccola luce, il fotografo Luciano Di Gregorio ci accompagna in un viaggio silenzioso, fatto di ombre e chiarori, dove una giovane donna regge una candela come se fosse l’ultima scintilla di speranza in un mondo immerso nel buio. L’immagine colpisce per il suo equilibrio tra eleganza classica e sensibilità contemporanea. La modella, avvolta da veli che sembrano fumo o vento solidificato, emerge dal fondo nero come una figura sospesa nel tempo. Lo sguardo è calmo, quasi assorto, e invita lo spettatore a condividere un momento di intimità e contemplazione. La luce della candela non serve solo a illuminare la scena: diventa il vero cuore del racconto. È una luce piccola, sì, ma intensa, che sembra proteggere il volto della giovane e guidare chi osserva. È la metafora di un’umanità che resiste, di un pensiero che brilla anche quando tutto sembra spento. La scelta cromatica, sobria e raffinata, amplifica l’effetto emotivo. I verdi trasparenti dei veli e il marrone profondo dell’abito creano un contrasto delicato, quasi pittorico, che ricorda i ritratti rinascimentali e le nature morte fiamminghe. Ma qui non c’è nostalgia: c’è un dialogo tra passato e presente, tra sacro e profano, che rende l’opera viva e attuale. Il ciclo “Iconoclastica”, di cui questa fotografia fa parte, si interroga proprio su questo: cosa significa oggi creare icone, immagini che restino, in un’epoca di scorrimento veloce e consumo istantaneo? Con Sguardo di piccola luce, Di Gregorio sembra rispondere che l’arte può ancora fermarci, può ancora chiedere silenzio e attenzione. In definitiva, questa immagine è più di un ritratto: è un piccolo rito visivo, un invito a riscoprire il valore della luce — interiore ed esteriore — che ci accompagna anche nei momenti più oscuri.
L’Ultima Veggente – L’Oracolo del Silenzio
L’Ultima Veggente – L’Oracolo del Silenzio di Luciano Di Gregorio dalla serie Iconoclastica Nel panorama della fotografia contemporanea, “L’Ultima Veggente” di Luciano Di Gregorio si impone come un’opera di rara potenza simbolica, capace di fondere la tradizione pittorica fiamminga con un immaginario quasi surrealista. La composizione è una celebrazione dell’enigma: la figura centrale, avvolta in un abito di velluto scuro e impreziosita da un colletto di pizzo, richiama la ritrattistica seicentesca. Ma è la benda che ne avvolge il volto a trasformare l’immagine in un manifesto visivo dell’ignoto e dell’invisibile. Il titolo, L’Ultima Veggente, ci pone di fronte a una profezia silenziosa: l’oracolo è qui, ma la sua voce è muta, i suoi occhi sono coperti. In un’epoca in cui l’immagine è sovrabbondante e la parola urlata, Di Gregorio sembra invitarci a un ritorno al mistero, a un ascolto interiore che non passa dalla vista. I tre elementi dominanti – il rosso delle rose, il bianco delle bende e l’azzurro dell’uccello – costruiscono un linguaggio cromatico che racconta una storia di tensioni: eros e morte, purezza e sacrificio, libertà e prigionia. L’uccello, posato delicatamente sulla mano della veggente, rappresenta l’ultima possibilità di dialogo tra l’umano e il divino, un messaggero che forse canta una verità che la protagonista non può né vedere né pronunciare. La serie Iconoclastica a cui quest’opera appartiene si interroga sull’atto stesso del guardare e del rappresentare. Qui l’icona è decostruita, privata del volto, ma resa ancora più sacra attraverso il gesto rituale del bendaggio. Non è distruzione dell’immagine, ma sua trasfigurazione: Di Gregorio ci ricorda che la vera visione nasce dall’interiorità, e che la veggenza, oggi, è più che mai un atto di fede. “L’Ultima Veggente” non è un semplice ritratto: è una soglia. L’osservatore è chiamato a varcarla, a sostare nel silenzio, a interrogarsi sul proprio rapporto con l’invisibile. È in questo spazio sospeso che l’opera rivela la sua forza, trasformandosi da immagine in esperienza.
RINASCIMENTO 2.0: L’Androginismo come Icona Contemporanea
All’interno del ciclo ICONOCLASTICA, l’artista Luciano Di Gregorio ci regala con Rinascimento 2.0 una riflessione radicale sul rapporto tra identità, storia e tecnologia. L’opera, realizzata con la precisione di un antico maestro e la visione di un autore post-digitale, ci trasporta in un universo sospeso dove il passato e il futuro convivono senza frizioni. L’immagine colpisce subito per la sua impostazione classica: la posa frontale, la ricca veste rinascimentale, il velo che scivola come un fiume di organza. Tutto rimanda a un ideale di bellezza e compostezza che evoca i ritratti femminili del Quattrocento. Eppure, è proprio in questa cornice familiare che si innesta l’elemento dirompente: le cuffie futuristiche che incoronano il capo, illuminate da un bagliore blu elettrico, due rose rosse come un sigillo romantico. Di Gregorio mette così in scena un corpo androgino, sospeso tra maschile e femminile, tra carne e tecnologia. Il volto privo di capelli e tratti marcati ci spinge a interrogarci: chi è questa figura? Una dama, un cavaliere, un avatar? L’ambiguità diventa il cuore dell’opera, simbolo di una contemporaneità che rifiuta le categorie nette, preferendo fluire tra identità, ruoli e tempi storici. Il piccolo animale stretto fra le mani – un furetto dal manto dorato – richiama la tradizione leonardesca (La dama con l’ermellino), ma qui diventa quasi un compagno totemico, testimone silenzioso della metamorfosi culturale in atto. La sua presenza attenua la severità del ritratto, creando un contrappunto di tenerezza che umanizza l’intera scena. Dal punto di vista concettuale, Rinascimento 2.0 è un manifesto visivo. Ci ricorda che il Rinascimento, periodo di rinascita e riscoperta dell’umano, trova oggi una nuova forma nella fusione tra tradizione e futuro. La tecnologia – lungi dall’essere mera intrusione – diventa estensione identitaria, un nuovo “ornamento” che ridefinisce il nostro modo di abitare il corpo e il tempo. L’opera di Di Gregorio si inserisce con forza nel dibattito sull’androginismo come categoria estetica e sociale, proponendo un’immagine potente, solenne ma al tempo stesso aperta, capace di dialogare con chi osserva. Non si tratta di un semplice gioco anacronistico: è un invito a ripensare la nostra epoca, i suoi confini e i suoi simboli. Con Rinascimento 2.0, l’artista firma un’opera che è insieme omaggio, provocazione e profezia. Un ritratto che sembra dirci: il futuro è già qui, e ha il volto di chi non teme di essere molte cose allo stesso tempo. RINASCIMENTO 2.0: L’Androginismo come Icona Contemporanea All’interno del ciclo ICONOCLASTICA, l’artista Luciano Di Gregorio ci regala con Marilù Giannantonio: Visioni Psichedeliche e Colori L’arte di Marilù Giannantonio è un viaggio nell’immaginazione, un percorso in Musica per il Paradiso – Iconoclastica L’immagine che osserviamo, parte del ciclo “Iconoclastica” di Luciano Di Gregorio, Musique d’Opéra: il silenzio dell’ascolto Musique d’Opéra: il silenzio dell’ascoltoUn viaggio visivo nell’universo di Luciano Di
Musica per il Paradiso – Iconoclastica di Luciano Di Gregorio
L’immagine che osserviamo, parte del ciclo “Iconoclastica” di Luciano Di Gregorio, porta il titolo eloquente di “Musica per il Paradiso”. Essa raffigura una bambina palestinese di Gaza, sospesa tra la delicatezza di un ritratto secentesco e la brutalità del nostro presente, evocando in modo diretto il dramma del genocidio che attraversa la sua terra. Un’anacronistica bellezza La prima percezione è quella di un’opera che dialoga con la pittura barocca e rinascimentale: la posa composta, il costume sontuoso dalle cromie calde, la mano sul petto in gesto solenne. Questo linguaggio estetico rimanda ai ritratti di corte, dove l’infanzia era idealizzata come simbolo di innocenza e promessa di futuro. Tuttavia, qui quella promessa è incrinata: lo sguardo della bambina, pur luminoso e vivo, porta con sé una gravità che eccede il contesto iconografico. Il cortocircuito della contemporaneità Sull’armonia antica irrompe un dettaglio perturbante: le cuffie moderne nere e imponenti, appoggiate sulle orecchie della giovane modella. Questo oggetto tecnologico, apparentemente dissonante, diventa la chiave di lettura dell’intera composizione. È il segno del presente che si sovrappone alla memoria storica, il simbolo di un mondo globalizzato che penetra persino nelle rovine della guerra. Le cuffie non sono semplicemente accessorio: rappresentano la possibilità di fuga, la promessa di una musica che consola, di un suono che possa coprire le esplosioni, i lamenti, le sirene. La tensione tra vita e morte Il titolo “Musica per il Paradiso” introduce un doppio registro. Da un lato, l’idea di un ascolto intimo e salvifico, come se la bambina stesse ricevendo melodie celesti capaci di portarla oltre la brutalità del mondo terreno. Dall’altro, l’allusione funebre: in un contesto di genocidio, “paradiso” diventa luogo di trapasso, spazio in cui l’innocenza violata si rifugia. È un titolo che pesa come una condanna e una preghiera al tempo stesso. Iconoclastica: il progetto Il ciclo di cui l’opera fa parte, “Iconoclastica”, si fonda sulla volontà di Di Gregorio di decostruire e rifondare i linguaggi visivi canonici. L’iconoclastia, per definizione, è la distruzione delle immagini sacre; ma qui l’artista opera un ribaltamento: non distrugge, bensì ricompone icone nuove, in cui i riferimenti classici vengono contaminati da oggetti, simboli e temi contemporanei. Il risultato non è la cancellazione della tradizione, ma la sua rifunzionalizzazione critica: un invito a guardare al passato per comprendere meglio le tragedie del presente. L’innocenza come campo di battaglia Il fatto che la protagonista sia una bambina palestinese non è un dettaglio secondario. In essa si concentrano tutte le tensioni della violenza politica: l’infanzia che dovrebbe essere sacra, protetta, si trasforma in terreno di scontro e sacrificio. La bambina diventa icona universale della vulnerabilità umana. Il suo sorriso timido e i denti mancanti non nascondono ma amplificano la brutalità del contesto: ciò che vediamo non è solo una “figura” ma una vita reale, minacciata e ferita. Un’opera che interpella “Musica per il Paradiso” non si limita a commuovere o a stupire per la sua raffinata costruzione estetica. È un’immagine che interpella lo spettatore, che lo costringe a domandarsi: di quale paradiso parliamo? Di quale musica? L’opera diventa specchio delle nostre responsabilità, del nostro ruolo di osservatori spesso inermi, a volte complici, quasi sempre incapaci di fermare la violenza. Conclusione Luciano Di Gregorio, con questa fotografia, ci offre un’icona del nostro tempo: una bambina che porta sulle spalle secoli di arte occidentale, ma che appartiene a una terra martoriata dall’oppressione e dalla guerra. Il suo sorriso innocente, incorniciato da cuffie nere e da un abito sontuoso, diventa il simbolo dell’eterna contraddizione tra bellezza e barbarie, tra vita e morte, tra memoria e presente. “Musica per il Paradiso” è, dunque, una preghiera visiva, un atto di denuncia e al tempo stesso un inno fragile alla speranza
Musique d’Opéra: il silenzio dell’ascolto
Musique d’Opéra: il silenzio dell’ascolto Un viaggio visivo nell’universo di Luciano Di Gregorio Con la serie Iconoclastica, Luciano Di Gregorio ha intrapreso un percorso che mette in discussione, celebra e al tempo stesso reinventa il linguaggio dell’immagine, restituendo alla fotografia la forza di un’icona contemporanea. Tra le opere più emblematiche, Musique d’Opéra si distingue come una riflessione poetica sull’ascolto e sulla sacralità dell’esperienza estetica. L’immagine raffigura una giovane figura femminile dai capelli rossi, avvolta in un abito semplice dal sapore antico. Le pieghe della veste e la posa delle mani, composte ma vibranti di tensione interiore, evocano immediatamente la pittura rinascimentale e barocca: i ritratti di scuola fiamminga, le Madonne quattrocentesche, la delicatezza dei volti preraffaelliti. Eppure, al centro della composizione, l’elemento dirompente: un paio di cuffie monumentali, ornate come reliquiari, racchiudono la testa della giovane, fiorita da rose rosse che emergono come corone simboliche. È qui che Di Gregorio mette in atto la sua iconoclastia: accosta l’immaginario sacro e quello profano, il linguaggio della tradizione pittorica e l’oggetto tecnologico della modernità. Le cuffie, di solito simbolo di isolamento e consumo rapido di suoni, si trasformano in strumento rituale, quasi sacramentale. Non più accessorio quotidiano, ma reliquia preziosa, capace di trasmettere non solo musica, ma un’esperienza spirituale. Il titolo Musique d’Opéra sottolinea l’intensità drammatica del gesto: non si tratta di un ascolto leggero o distratto, ma di un’immersione totale, di una partecipazione interiore che richiama la solennità del melodramma. Lo sguardo assorto della ragazza, sospeso tra malinconia e contemplazione, ci consegna l’immagine di un’anima catturata dal potere evocativo della musica. L’arte visiva e quella sonora qui si incontrano, generando un cortocircuito sinestetico: vediamo il silenzio, ma percepiamo l’eco del suono. Dal punto di vista estetico, Di Gregorio dimostra una padronanza assoluta della luce e del colore. I toni caldi, che oscillano tra l’ocra e il bruno, costruiscono un’atmosfera di intimità e raccoglimento, mentre i dettagli delle cuffie, finemente incisi, dialogano con la texture dei capelli e con le rose, in un raffinato gioco di corrispondenze materiche. Ogni elemento sembra sospeso in una dimensione fuori dal tempo, dove il passato e il presente convivono senza contraddirsi. Musique d’Opéra diventa così un’icona della contemporaneità: un ritratto che, pur attingendo al patrimonio figurativo della storia dell’arte, parla con urgenza al nostro presente. In un’epoca in cui l’ascolto è sempre più frammentato, l’artista ci invita a recuperare la profondità di un’esperienza estetica che sia totalizzante, trasformativa, quasi mistica. Luciano Di Gregorio, con la sua Iconoclastica, non distrugge le immagini: le reinventa, le interroga, le mette a confronto con la nostra epoca digitale, offrendo al pubblico un nuovo pantheon di icone laiche. Musique d’Opéra ne è un esempio folgorante: una fotografia che si fa pittura, un ritratto che si fa reliquia, un volto che si fa specchio di un’esperienza universale.
Chiave per l’infinito – Luciano Di Gregorio, ciclo Iconoclastica
C’è un silenzio sospeso, antico e moderno al tempo stesso, nell’opera di Luciano Di Gregorio Chiave per l’Infinito. Una figura ieratica si offre allo sguardo come una reliquia viva, un’icona che non racconta ma interroga, non consola ma inquieta. È un’immagine che nasce dalla tradizione pittorica europea – le luci soffuse dei fiamminghi, il rigore compositivo del Rinascimento, le suggestioni barocche – ma che subito tradisce ogni rassicurante classicismo per aprirsi a una dimensione altra, disturbante, spiazzante. La donna, o meglio l’archetipo umano che ci appare davanti, non ha capelli: la sua testa rasata la rende senza tempo, spogliata di identità anagrafiche, sociale o storica. È l’essere umano nudo e radicale, privato di orpelli, reso simbolo più che individuo. Sui suoi occhi una benda grezza, argentata, che stride con l’eleganza rinascimentale del colletto a gorgiera e delle maniche vaporose. Il nastro moderno, quasi industriale, è un gesto di rottura: un atto iconoclasta che nega la vista esteriore per spalancare quella interiore. Perché l’infinito non si guarda: si sente, si attraversa, si custodisce. Al collo, due gioielli dai toni caldi e sanguigni, ornati di perle: rosso e bianco, sangue e purezza, materia e spirito. Non semplici ornamenti, ma segnali di un alfabeto simbolico che parla di dualità e riconciliazione. Alle spalle, due grandi foglie secche, come ali precarie: non piume angeliche, ma natura che si trasforma in spiritualità. L’essere umano diventa così un ibrido tra corpo e allegoria, tra creatura terrena e figura alata. E poi le mani, ferme, eleganti, concentrate sul gesto di stringere una chiave dorata. Non una chiave qualunque, ma la chiave per l’infinito. È il cuore dell’opera, il suo sigillo. La chiave non apre una porta reale, ma indica un varco invisibile, interiore, forse mistico. È promessa e minaccia allo stesso tempo: possedere la chiave significa avere il potere, ma anche la responsabilità, di varcare una soglia che non tutti sono pronti ad attraversare. Il titolo stesso, Chiave per l’Infinito, ci guida verso questa lettura. Di Gregorio ci dice che l’arte non deve solo rappresentare: deve aprire, squarciare, spalancare possibilità. In questo ciclo, Iconoclastica, le immagini nascono dalla distruzione consapevole di icone passate per generare nuove icone, attuali e universali. Il volto bendato, i simboli in bilico tra sacro e profano, la teatralità della posa: tutto concorre a creare una nuova religiosità, non dogmatica ma esistenziale. Guardando quest’opera, lo spettatore si trova davanti a un enigma. La figura ci appare solenne, quasi divina, ma al tempo stesso fragile, resa vulnerabile dall’assenza di capelli, dall’assenza di occhi. È un’umanità che non ha certezze ma che stringe ancora una chiave. Un’immagine che non offre risposte ma che ci costringe a domandarci: qual è il nostro infinito? siamo pronti a varcarne la soglia? La forza di Chiave per l’Infinito sta proprio in questa tensione: tra bellezza e inquietudine, tra passato e presente, tra icona e iconoclastia. Luciano Di Gregorio costruisce una pittura che è al tempo stesso tecnicamente impeccabile e concettualmente perturbante, capace di collocarsi in un dialogo sotterraneo con la storia dell’arte e con la nostra interiorità. È un’opera che si guarda come si ascolta un oracolo: con timore, curiosità, reverenza. Non ci svela l’infinito, ma ci ricorda che esiste, e che forse la chiave è già nelle nostre mani.
Allegoria dell’Ermafrodito Floreale di Luciano Di Gregorio
L’opera di Luciano Di Gregorio, dal titolo “Allegoria dell’Ermafrodito Floreale” e appartenente al ciclo Iconoclastica, si presenta come un’immagine di grande forza simbolica e raffinata costruzione estetica. L’artista gioca consapevolmente con i codici visivi della ritrattistica rinascimentale e barocca, innestandoli in una dimensione concettuale contemporanea, fatta di tensioni identitarie, sovversione dei generi e ricerca di un nuovo canone iconografico. La figura centrale, rappresentata con un’impostazione frontale e ieratica, richiama la solennità delle madonne quattrocentesche e delle allegorie manieriste, ma si carica di un’intensità perturbante. Il corpo, reso con straordinaria cura pittorica nonostante la natura fotografica dell’opera, si staglia sul fondo scuro in un contrasto che esalta la luminosità della pelle e la preziosità del costume. La nudità del capo, privo di capelli, trasforma il volto in un terreno di assoluta neutralità: né maschile né femminile, ma sospeso in una condizione liminale che rompe le categorie binarie. È qui che l’artista innesta il concetto di ermafroditismo, non come mero dato biologico, ma come allegoria di un’identità fluida, fertile e trasformativa. L’elemento floreale, che dà titolo all’opera, non è semplice ornamento decorativo: le rose che sbocciano sul capo, come un’aureola carnale, e quelle che ricamano le maniche e la veste, suggeriscono un’idea di rigenerazione e di continuità vitale. La figura gravida, con le mani posate sul ventre, diventa simbolo di creazione e di metamorfosi. Non si tratta soltanto di maternità, ma di una gestazione simbolica: il grembo come luogo di nascita di un nuovo paradigma identitario e culturale. L’ermafrodito floreale non partorisce un figlio, ma un futuro possibile, in cui le differenze non vengono cancellate ma integrate, come petali di una stessa corolla. La resa cromatica intensifica la tensione simbolica: i toni caldi e profondi, tra il rosso delle rose e l’oro bruno della veste, evocano insieme sensualità e sacralità, passione e decoro liturgico. È come se l’artista avesse voluto mettere in scena una “sacra icona pagana”, in cui l’aura della religione si fonde con la forza della natura e con la corporeità senza filtri. La preziosità degli ornamenti al collo e alle orecchie rimanda a un’iconografia regale, ma il volto fermo e diretto, quasi ascetico, dissolve ogni compiacimento estetico e ci obbliga a confrontarci con lo sguardo enigmatico della figura. Dal punto di vista concettuale, l’opera si inserisce pienamente nel percorso Iconoclastica: essa rompe gli idoli, non li distrugge, ma li reinventa. Qui l’icona sacra della Madonna gravida viene smontata e ricomposta in una figura ibrida, che non appartiene più a una devozione religiosa ma a una nuova mitologia della contemporaneità. L’iconoclastia, dunque, non è negazione, bensì trasfigurazione: l’artista non elimina l’aura, la sposta altrove, la conferisce a un corpo “altro”, liminale, che si fa veicolo di un messaggio radicalmente inclusivo. In definitiva, “Allegoria dell’Ermafrodito Floreale” si configura come una potente meditazione sulla possibilità di trascendere i limiti imposti dal genere, dalla tradizione e dalla storia dell’arte, per approdare a una visione sincretica, fertile e poetica. È un’immagine che seduce e inquieta, che richiama la classicità e al tempo stesso la sovverte, che offre allo spettatore non un modello da imitare ma un enigma da abitare. Dialogo con i Primitivi Fiamminghi La prima suggestione che l’opera evoca è quella dei primitivi fiamminghi, in particolare Jan van Eyck. La cura minuziosa dei dettagli decorativi, la resa quasi tattile dei tessuti, la lucentezza vellutata delle superfici sono tratti che richiamano capolavori come l’“Arnolfini Portrait”. Anche lì la maternità (o la sua allusione) è resa attraverso un ventre prominente, simbolo di fertilità e continuità. Di Gregorio sembra raccogliere questa eredità e piegarla a un discorso più complesso: non più la donna borghese come garante della discendenza, ma un soggetto ibrido, ermafrodito, che destabilizza la funzione sociale del corpo femminile e ne propone una lettura più universale, quasi cosmica. ⸻ Confronto con Caravaggio Il rapporto con Caravaggio si coglie soprattutto nell’uso del chiaroscuro. Lo sfondo scurissimo, da cui emerge la figura come in una rivelazione, è una scelta che richiama la teatralità del Seicento. Tuttavia, laddove Caravaggio metteva in scena la drammaticità dell’esperienza religiosa o umana con gesti dinamici e tensioni corporee, Di Gregorio opta per un’immobilità ieratica. È un realismo che si fa icona, dove la luce non svela la crudezza della carne, ma la trasfigura in presenza sacrale. Eco dei Preraffaelliti L’ornamento floreale e la dimensione simbolica riportano invece ai Preraffaelliti, che nell’Ottocento tornarono a una pittura densa di allegorie, intrisa di natura e poesia. L’uso della rosa come emblema di rigenerazione e sensualità è tipicamente preraffaellita. Ma Di Gregorio non indulge nella grazia malinconica di Rossetti o Millais: il suo floreale è più severo, quasi un’aureola laica, che sottolinea la forza ieratica della figura. Eredità Rinascimentale e Iconoclastia Sul piano iconografico, non si può non pensare alle Madonne rinascimentali, in particolare quelle di Piero della Francesca o di Leonardo, dove la maternità è al tempo stesso evento terreno e simbolo universale. Qui l’artista cita quell’archetipo, ma lo trasforma radicalmente: la maternità non è garantita da una figura femminile tradizionale, bensì da un corpo ermafrodito che si appropria dell’aura mariana per restituirla al nostro tempo. È qui che si manifesta l’iconoclastia di Di Gregorio: smonta il codice, lo rielabora e ne produce un mito nuovo. Dimensione Contemporanea Infine, l’opera si colloca nel dibattito contemporaneo sulle identità fluide e sulla rappresentazione del corpo. L’ermafrodito floreale diventa il simbolo di un’umanità che non ha più bisogno di scegliere tra maschile e femminile, tra sacro e profano, tra natura e cultura. In questo senso, Di Gregorio riprende la tradizione iconografica occidentale per portarla verso una nuova mitologia inclusiva, che accoglie differenza e molteplicità come principi fondativi. 👉 In sintesi, l’“Allegoria dell’Ermafrodito Floreale” si muove tra Van Eyck e i Preraffaelliti, tra Caravaggio e Piero della Francesca, raccogliendo frammenti della memoria artistica per riorganizzarli in un’immagine radicalmente nuova. L’opera è un palinsesto visivo, in cui la tradizione non viene cancellata, ma stratificata e trasformata in chiave iconoclastica e contemporanea. Lettura Psicanalitica e Archetipica L’Androgino come Archetipo (Jung) Carl Gustav Jung individua nell’androgino una delle figure archetipiche
Lo Sbeffeggio Ludopatico – Un’irriverenza necessaria
Lo Sbeffeggio Ludopatico – Un’irriverenza necessaria Ciclo ICONOCLASTICA di Luciano Di Gregorio Nel panorama dell’arte contemporanea, l’opera “Lo Sbeffeggio Ludopatico” di Luciano Di Gregorio, appartenente al ciclo ICONOCLASTICA, si impone come un cortocircuito visivo e concettuale, capace di fondere ironia e critica sociale in un’unica, sorprendente immagine. Il fotografo costruisce un ritratto che richiama la pittura fiamminga e barocca, per impostazione luministica e per la rigidità teatrale della posa. Tuttavia, la compostezza viene subito incrinata da elementi di dissonanza: la bambina mostra la lingua con un ghigno beffardo, tiene un pastello tra i denti come fosse un’arma giocosa, e soprattutto indossa un collare elisabettiano decorato da piccoli cuori, segni di una giocosa decadenza. Sul capo, a completare l’atto iconoclasta, un fragile castello di carte: simbolo del vizio, della precarietà, e della compulsione ludica. Di Gregorio gioca volutamente con la tensione tra codici alti e bassi, tra il rigore delle convenzioni estetiche e la carica dissacrante del gesto infantile. L’immagine diventa così un’allegoria della ludopatia: un gioco che non è più innocente, che trasforma il divertimento in ossessione, e che qui viene ridicolizzato, privato della sua aura tragica attraverso lo sberleffo. Il titolo stesso, Lo Sbeffeggio Ludopatico, è un ossimoro concettuale: la malattia sociale del gioco d’azzardo, una delle nuove schiavitù del nostro tempo, viene affrontata con leggerezza, come se un bambino la irridesse con la lingua di fuori. È proprio in questo scarto che risiede la forza dell’opera: la critica non passa per il moralismo, ma per la risata, per la parodia che disarma. L’artista, con il ciclo ICONOCLASTICA, sembra proporre una riflessione più ampia sul ruolo dell’immagine oggi: icona e idolo da distruggere, smontare, desacralizzare. Come un’eco lontana di Dada e Surrealismo, ma attualizzata nella fotografia concettuale, Di Gregorio ridisegna i confini tra sacro e profano, tra arte alta e cultura pop, tra dramma e gioco. In definitiva, “Lo Sbeffeggio Ludopatico” non è solo un ritratto ironico: è un atto politico, un invito a guardare in faccia le contraddizioni del presente senza paura di riderne. Perché, come l’artista sembra suggerire, anche la risata può essere un’arma iconoclastica.
