Luciano Di Gregorio – FORME MENTALI Critica d’arte Nel ciclo FORME MENTALI, Luciano Di Gregorio abbandona ogni residuo figurativo per lavorare direttamente sull’origine del pensiero visivo: il segno che tenta di organizzare il caos. Le tre opere che presenti ne sono una sintesi esemplare, perché mettono a fuoco tre stati diversi della mente: la struttura, l’ombra interiore, la tensione organica. È una ricerca che non descrive, ma attiva; non rappresenta, ma interroga. 1. Le “strutture archetipiche” – Il pensiero come architettura primitiva Nella prima immagine, tre forme monolitiche emergono da un fondo neutro come presenze arcaiche. Sembrano blocchi, totem, macigni interiori. Le linee sottili che li attraversano — tagli, tensioni, tracciati — funzionano come mappe mentali: l’artista visualizza l’atto del “mettere ordine” dentro un pensiero ancora grezzo. Il segno qui non è decorazione: è una incisione sul tempo. Sono forme che “non vogliono” diventare altro, e proprio per questo appaiono drammaticamente autentiche. È l’atto mentale originario, la nascita di una idea prima che prenda forma definita. 2. Il volto frantumato – La psiche come luogo dell’ombra La seconda immagine è il contrappunto emotivo del ciclo: un volto emerge dal buio non come identità, ma come frammento psichico. Gli occhi sospesi, le cavità, il bianco che sembra corrodere e ferire: tutto parla di un pensiero che incontra la sua parte oscura. Questa opera non mostra un volto, mostra la “sensazione di un volto”: un’emersione e una dissoluzione simultanea. Il bianco brucia, il nero inghiotte, e la materia pittorica diventa il campo di battaglia tra visibile e inconscio. È una immagine inquieta, ma necessaria: è il momento in cui la mente deve fare i conti con ciò che rifiuta di vedere. 3. L’intreccio – Il pensiero come organismo vivente Nella terza immagine il segno esplode in una rete quasi nervosa, un groviglio che ricorda neuroni, rami, vene, radici. Qui Di Gregorio lavora su un’idea chiave: il pensiero non è una struttura rigida ma un organismo che si intreccia, cresce, si aggroviglia. L’opera suggerisce una mente attiva, ribelle, che non si lascia costringere in schemi lineari. Il tratto spezzato, i filamenti, l’energia che sale verso l’alto creano un movimento verticale: è l’ascesa, lo sforzo mentale che porta verso una forma nuova. Valore del ciclo: una mappa del pensiero contemporaneo Con FORME MENTALI, Di Gregorio disegna un percorso che va dal monolite al volto, dal volto al groviglio vitale. È come attraversare tre piani della mente: La struttura – ciò che pensiamo di essere. L’ombra – ciò che ci minaccia o ci definisce senza che lo ammettiamo. Il movimento organico – il pensiero come sistema in evoluzione. Non c’è narrativa, non c’è racconto: c’è un processo. Ed è un processo profondamente contemporaneo, perché parla di identità fluide, di interiorità che si disgregano e ricompongono, di una psiche sottoposta a pressioni del presente ma capace di reinventarsi. Conclusione Il ciclo funziona perché non offre risposte: offre forme che ci costringono a riflettere sulle nostre. È una ricerca che guarda avanti, che apre spazi di interpretazione e invita lo spettatore a entrare nel proprio labirinto mentale. Queste opere non chiedono di essere comprese. Chiedono di essere ascoltate.
Tommaso Cascella e Mariano Cipollini propongono una rinascita attiva per il museo pescarese: un laboratorio vivo di arti visive e performative che coniughi memoria e innovazione. Fare del Museo Basilio Cascella “un’officina della contemporaneità” non è solo un progetto di gestione museale: è una visione. È la volontà di riaccendere un’eredità familiare lunga 150 anni, proiettandola nel presente con una funzione rinnovata — quella di un laboratorio di idee, arti e partecipazione. L’artista Tommaso Cascella, erede di una dinastia che ha segnato la storia dell’arte abruzzese e italiana, e il curatore Mariano Cipollini, hanno presentato alla commissione Cultura del Comune di Pescara una proposta che promette di trasformare il museo di via Marconi in un luogo vivo, dinamico, interconnesso con il mondo. “Il museo deve tornare ad essere un punto di riferimento per la città e per chi la visita — un luogo dove si produce, non solo dove si conserva”, ha dichiarato Cascella, ricordando come il museo abbia attraversato “cinquant’anni tribolati”. L’obiettivo è far sì che il museo “cammini con le proprie gambe”, valorizzando non soltanto le oltre 600 opere custodite, ma soprattutto la continuità creativa di una famiglia che ha attraversato sei generazioni — un caso raro anche a livello internazionale, “che non si trova neppure in Giappone”, come sottolineato in commissione. Una bottega d’arte per il XXI secolo Cipollini ha posto l’accento sulla longevità artistica dei Cascella, sottolineando la necessità di farne un modello: una “bottega moderna”, ponte tra il patrimonio storico e le nuove pratiche della contemporaneità. Il museo, nella visione condivisa con l’amministrazione, diventerebbe così un centro di produzione culturale aperto alle arti visive, ma anche alla musica, alla danza, alla scrittura, al cinema, al costume e al giornalismo, accogliendo iniziative performative e formative che restituiscano alla città di Pescara un luogo di aggregazione e scambio. Un approccio multidisciplinare, insomma, che riecheggia l’antica tradizione dei Cascella — pittori, scultori, ceramisti, incisori e grafici — ma la proietta nel linguaggio del nostro tempo, dove le arti dialogano e si contaminano. Dall’Abruzzo al mondo Il progetto guarda lontano. Tra le prospettive già accennate, collaborazioni con musei e accademie internazionali — dall’Accademia di San Luca di Roma a istituzioni in Cile e in Abruzzo, con mostre e scambi culturali sostenuti anche dalla Regione. La rete che si intende costruire è quella di un Abruzzo che si riapre al mondo attraverso la cultura, riportando il nome di Cascella (e di Pescara) nel circuito nazionale e internazionale dell’arte contemporanea. Una politica culturale che genera appartenenza Come ha osservato la consigliera Caterina Artese, presente all’incontro, “il museo Basilio Cascella non è ancora riuscito a diventare un luogo di aggregazione cittadina, nonostante l’orgoglio che rappresenta”. La proposta di Cascella e Cipollini, dunque, si muove in una direzione precisa: riattivare l’identità culturale del museo come luogo d’incontro, di appartenenza, di partecipazione attiva. Un’officina della contemporaneità in cui le generazioni si incontrano, le arti si fondono e la memoria si rinnova, trasformando un archivio familiare in una fucina pubblica di creatività condivisa. In prospettiva, il Museo Basilio Cascella può diventare ciò che è sempre stato nella sua essenza: una casa dell’arte, ma anche una scuola di futuro. Un luogo dove l’eredità del passato si traduce in linguaggio contemporaneo, dove la tradizione non è vincolo ma energia generatrice — e dove la città di Pescara può finalmente riconoscersi in una cultura che non contempla, ma agisce.
Putin, Monna Lisa e il Drone del Potere: Allegoria Grottesca del Controllo Contemporaneo Questa immagine, al confine tra satira e arte concettuale, propone una visione fortemente simbolica e provocatoria: un personaggio dalle fattezze riconducibili a Vladimir Putin travestito da Monna Lisa, con un drone posto sulla testa come una sorta di corona cibernetica. Il risultato è una composizione surreale, che fonde l’iconografia rinascimentale con il linguaggio tecnologico e il potere geopolitico moderno. Una Monna Lisa del XXI secolo La scelta di fondere l’identità di Putin con quella della Monna Lisa è di per sé un gesto artistico carico di tensione semantica. Da un lato, l’immagine della Gioconda evoca l’ideale della bellezza, dell’enigma psicologico e dell’equilibrio classico; dall’altro, l’inserimento del volto di un leader fortemente polarizzante introduce un contrasto destabilizzante. L’enigma del sorriso leonardesco è qui sostituito da una smorfia caricaturale, una linguaccia infantile che sconfina nel dadaismo, come se volesse sbeffeggiare l’intera storia dell’arte — o l’intero mondo. Il drone come corona Sopra la testa, un drone sostituisce la classica acconciatura rinascimentale o la corona imperiale, diventando il vero elemento di rottura e di lettura simbolica. Non è solo un oggetto contemporaneo: è una metafora. Il drone è sorveglianza, controllo a distanza, superiorità tecnologica. È lo strumento del potere moderno, capace di colpire, spiare, intervenire senza presenza fisica. Nel contesto di un leader noto per l’uso dell’intelligence, della guerra informatica e del controllo mediatico, questo accessorio assume una valenza ironicamente regale. Una corona non più fatta d’oro, ma di eliche, sensori e videocamere. Il volto che si burla dell’autorevolezza Il gesto del fare la linguaccia, un’espressione solitamente infantile, qui assume un valore politico dissacrante: è un attacco all’iconografia classica del potere e al culto della personalità. Putin non appare qui come lo “zar” imperturbabile, ma come una figura buffonesca, trasfigurata dalla lente deformante dell’arte digitale. È un sovrano del ridicolo, un meme vivente, riflesso delle contraddizioni del nostro tempo, dove autorità e spettacolo si confondono. Una riflessione sull’epoca del simulacro Questa immagine non è solo parodia: è un potente memento mori della nostra epoca. La sovrapposizione tra simboli di potere, arte e tecnologia diventa una denuncia implicita del dominio delle immagini sulla realtà. Il leader non è più solo uomo, ma rappresentazione, costrutto mediale, icona manipolabile. La presenza del drone — oggetto che “vede” — indica che il vero potere non sta più nell’essere guardati, ma nel guardare. Un potere oculare, digitale, invisibile. Conclusione In quest’opera la parodia si fa critica. Il travestimento non è solo comico, ma tragicamente veritiero. Ci mostra come le figure del potere contemporaneo, anche le più temute, siano parte di un teatro globale in cui identità, immagini e strumenti di controllo si fondono. Questa Monna Lisa ibrida, metà leader, metà cyborg, ci interroga con un’ironia pungente: chi controlla chi, in questo nuovo Rinascimento digitale?
Nel panorama dell’arte contemporanea, in cui l’ibridazione tra immagine politica, sacralità e iconoclastia diventa sempre più frequente, l’opera Pontifex Maximus si impone come un esempio fulminante di satira visiva, lucida e provocatoria. Realizzata nello stile solenne dell’olio su tela, l’immagine si presenta inizialmente come un classico ritratto pontificale, per poi esplodere in un cortocircuito simbolico che ne rovescia ogni codice: il personaggio ritratto, riconoscibilmente ispirato all’ex presidente statunitense Donald Trump, siede su un trono in abiti clericali, indossando un cappello di carta di giornale e sollevando con decisione il dito medio smaltato. L’intervento satirico non si ferma alla gestualità oscena — che già infrange brutalmente l’aura liturgica del soggetto — ma si estende alla costruzione stessa dell’identità iconografica. Il cappello di carta, elemento infantile e fragile, sostituisce la tiara papale, smascherando l’apparato della sacralità come costruzione effimera e artificiale. Il medaglione presidenziale americano che pende dal collo del protagonista richiama la sovrapposizione, ormai diffusa, tra potere spirituale e potere secolare, tra autorità religiosa e narrazione politica. È proprio in questo incrocio tra Vaticano e Casa Bianca, tra pulpito e palcoscenico mediatico, che l’opera innesta la sua forza eversiva. L’aggiunta del rossetto sulle labbra e dello smalto sul dito mediano suggerisce un’ambiguità ulteriore: non si tratta semplicemente di una parodia del potere maschile e patriarcale, ma forse anche di una riflessione sull’identità pubblica come performance, sulla teatralità dell’autorappresentazione, in un’epoca dove l’immagine ha sostituito la sostanza. L’artista – di cui si coglie una mano sapiente, figlia della tradizione fiamminga o del realismo ottocentesco – adopera la tecnica pittorica non per abbellire, ma per amplificare il contrasto tra apparenza e contenuto. La qualità quasi fotografica del dipinto rende ancora più disturbante la sua carica ironica: tutto è dipinto con devozione e precisione, ma l’effetto finale è una demolizione sistematica della reverenza, un affondo feroce nel cuore dell’idolatria contemporanea. Pontifex Maximus si pone così come una critica visiva alla divinizzazione del potere politico, al culto della personalità e alla spettacolarizzazione del sacro. Con un linguaggio che mescola l’estetica della pittura ufficiale con l’ironia dissacrante della cultura memetica, l’opera non cerca la neutralità: vuole disturbare, sollevare domande, obbligare lo spettatore a riflettere sul modo in cui veneriamo i nostri leader.
Nel silenzio della materia. La pittura di Pipani tra stratificazione e distanza La pittura di Pipani si muove lungo i margini del visibile, là dove il gesto diventa traccia e il colore memoria. Le sue opere non cercano la rappresentazione, ma piuttosto l’evocazione, affidandosi a materiali che portano in sé un senso di fragilità e resistenza: garze, carte, pigmenti e resine si sovrappongono in una costruzione lenta e silenziosa della superficie. Ogni quadro è un campo stratificato, monocromo, spesso dominato da toni neutri o da un blu profondo, quasi archetipico. È proprio il blu egizio, presenza costante nella sua produzione recente, a diventare cifra poetica e concettuale del suo lavoro. Questo colore antico e al tempo stesso immaginifico rimanda a una “lontananza” non solo spaziale, ma anche mentale e spirituale. Una distanza che non separa, ma invita alla riflessione, all’ascolto di ciò che resta fuori dal frastuono dell’attualità. Nella mostra Über die Ferne, tenutasi a Milano nel 2024, Pipani ha esplicitamente messo in scena questa idea di altrove: uno spazio mentale che è insieme ritiro e apertura, memoria e attesa. Le superfici che l’artista compone sembrano custodire il tempo, inglobando segni, parole e tracce in un dialogo silenzioso con la luce e l’ombra. Non c’è narrazione, ma una tensione costante verso il senso. Ogni elemento è come sospeso, in bilico tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere. La materia, qui, non è mai muta: parla attraverso le sue fratture, i suoi spessori, i suoi assorbimenti. La pittura si fa pelle, reliquia, palinsesto. Pipani non dipinge immagini, ma condizioni interiori. Ogni opera è una soglia, un varco verso una dimensione contemplativa che interroga il nostro rapporto con il tempo, la presenza e la memoria. In un’epoca di velocità e saturazione visiva, la sua pratica pittorica propone un rallentamento necessario. Un invito a vedere — e sentire — altrimenti.
Il ritratto pittorico, una forma d’arte che ha segnato la storia della rappresentazione umana, si presenta come un mezzo espressivo per catturare non solo l’aspetto fisico, ma anche l’essenza del soggetto ritratto. La sua evoluzione ha attraversato varie epoche, dal Rinascimento fino all’epoca contemporanea, riflettendo le trasformazioni della società e le pratiche artistiche. Gli artisti, in diverse fasi storiche, hanno utilizzato il ritratto per enfatizzare il carattere, lo status sociale e le emozioni, rendendo ogni opera qualcosa di unico e significativo. Sin dai tempi antichi, il ritratto ha avuto un ruolo centrale nella cultura visiva, influenzando e rispecchiando le ideologie e le apparenze del periodo. Durante il Rinascimento, i ritratti divennero strumento di celebrazione della bellezza umana e del potere, con artisti come Leonardo da Vinci e Raffaello che hanno perfezionato la tecnica per rivelare la psicologia dei loro soggetti. Nelle epoche successive, le variazioni stilistiche hanno dato vita a ritratti più audaci e sperimentali, come nel caso delle opere di artists, i quali si sono allontanati dai canoni tradizionali per esprimere nuove visioni artistiche. Con l’avvento della fotografia nel XIX secolo, si è aperto un dibattito sull’autenticità e la rappresentazione nel campo del ritratto. La fotografia ha offerto un nuovo modo di catturare l’immagine e il carattere umano, ponendo interrogativi sul valore e sul significato del ritratto pittorico. Questo dialogo tra pittura e fotografia continua a svilupparsi, con gli artisti contemporanei che spesso si confrontano e intrecciano queste due forme d’arte. La storia del ritratto pittorico, quindi, non è solo un viaggio attraverso le tecniche e le estetiche, ma uno specchio delle complessità umane e della nostra cultura visiva nel suo insieme. La Storia del Ritratto e le sue Funzioni Il ritratto ha una lunga e complessa storia che attraversa diverse epoche e culture, rispecchiando i valori sociali e le pratiche artistiche di ogni periodo. Dall’antichità, i ritratti sono stati utilizzati per rappresentare non solo l’individuo ma anche le ideologie e le narrazioni collettive. Plinio il Vecchio, nel suo testo “Naturalis Historia”, ha delineato tre funzioni principali del ritratto: commemorativa, celebrativa e didattica. Ognuna di queste funzioni ha avuto un impatto significativo sull’evoluzione del genere e sul modo in cui viene percepito dal pubblico. La funzione commemorativa è tra le più antiche e significative. I ritratti venivano creati per onorare e ricordare figure importanti, sia che si trattasse di leader politici che di personaggi storici. Questa pratica si è evoluta nel tempo, influenzando le tecniche e i materiali usati dagli artisti. I romani, ad esempio, utilizzavano busti in marmo e statue per preservare la memoria dei loro antenati, contribuendo a costruire una narrativa e una storia familiare che potesse perdurare nel tempo. La funzione celebrativa, d’altra parte, si concentra sull’azione di esaltare le qualità e i successi di un individuo. Questo tipo di ritratto è spesso associato alla rappresentazione di monarchi e nobili, i cui ritratti erano elaborati per enfatizzarne l’autorità e il prestigio. Durante il Rinascimento, artisti come Raffaello e Tiziano hanno saputo catturare l’essenza della nobiltà attraverso composizioni ricche e dettagliate, esaltando il soggetto attraverso l’uso di luce e colore. Infine, la funzione didattica del ritratto implica un processo di insegnamento e trasmissione di valori attraverso l’immagine. I ritratti, in questo contesto, diventano veicoli per la diffusione di ideologie e modelli comportamentali, permettendo al pubblico di apprendere dall’esemplarità dei soggetti rappresentati. Con il passare del tempo, queste tre funzioni continuano a intersecarsi, influenzando non solo le pratiche artistiche ma anche la percezione critica del ritratto nella società contemporanea. La Trasformazione del Ritratto nei Secoli La concezione del ritratto ha subito notevoli evoluzioni dal Quattrocento al Seicento, riflettendo cambiamenti significativi nei valori culturali, sociali e artistici dell’epoca. Inizialmente, i ritratti erano pratiche strettamente realistiche, dove l’abilità dell’artista era impiegata per catturare ogni dettaglio fisico del soggetto. Questo approccio, che si affermò durante il Rinascimento, mirava a rappresentare la fisiognomica in modo preciso, enfatizzando l’individualità e la nobiltà del modello. I ritratti rinascimentali, quindi, erano non solo espressioni artistiche, ma anche manifestazioni di status sociale e prestigio. Con il passare dei decenni e l’influenza delle correnti artistiche emergenti, il Seicento portò a una concezione più complessa del ritratto. Gli artisti iniziarono a esplorare l’interazione tra il soggetto e il suo ambiente, cercando di trasmettere non solo l’aspetto esteriore ma anche l’intuizione interiore del modello. Si sviluppò così un rapporto nuovo tra il ritrattista e il ritratto, dove l’artista si lasciava guidare da una visione personale, incorporando elementi di astrazione. Questi cambiamenti si possono osservare nei ritratti barocchi, dove il chiaroscuro e la composizione drammatica aumentavano l’intensità emotiva delle opere. La transizione da un ritratto puramente realistico a uno più espressivo ha permesso una libertà creativa senza precedenti. Si è visto un abbandono dell’idea che il ritratto dovesse essere una mera copia della realtà esteriore, spostando l’attenzione verso un’esperienza visiva complessa e raffinata. Questa evoluzione del ritratto non solo ha aperto nuove possibilità per la rappresentazione artistica, ma ha anche contribuito a formare la percezione del soggetto stesso come entità non solo fisica, ma anche psicologica e spirituale. Mediante queste trasformazioni, il ritratto ha iniziato a riflettere in modo più profondo l’essenza dell’umanità, integrando aspetti estetici e concettuali. Il Ritratto come Genere Pittorico Autonomo Nel corso del Seicento, il ritratto cominciò a svilupparsi come un genere pittorico autonomo, distinto da altre forme artistiche come la natura morta o la scena storica. Sebbene inizialmente il ritratto fosse considerato inferiore rispetto a questi generi più prestigiosi, nel corso del tempo ha guadagnato un’importanza crescente nel panorama dell’arte. Questo periodo storico segnò un cambiamento significativo nella percezione dell’individuo, evidenziando la necessità di rappresentare l’identità personale e la soggettività attraverso l’arte. Le opere di artisti come Rembrandt e Van Dyck hanno contribuito a rafforzare il posizionamento del ritratto come un mezzo per esplorare l’anima e le emozioni dei soggetti ritratti. Il ritratto non si limitava più a rappresentare un’immagine idealizzata, ma iniziava a catturare le sfumature della personalità, l’umore e la peculiarità del soggetto. Questo shift verso la personalizzazione portò a una maggiore






