
C’è un silenzio sospeso, antico e moderno al tempo stesso, nell’opera di Luciano Di Gregorio Chiave per l’Infinito. Una figura ieratica si offre allo sguardo come una reliquia viva, un’icona che non racconta ma interroga, non consola ma inquieta. È un’immagine che nasce dalla tradizione pittorica europea – le luci soffuse dei fiamminghi, il rigore compositivo del Rinascimento, le suggestioni barocche – ma che subito tradisce ogni rassicurante classicismo per aprirsi a una dimensione altra, disturbante, spiazzante.
La donna, o meglio l’archetipo umano che ci appare davanti, non ha capelli: la sua testa rasata la rende senza tempo, spogliata di identità anagrafiche, sociale o storica. È l’essere umano nudo e radicale, privato di orpelli, reso simbolo più che individuo. Sui suoi occhi una benda grezza, argentata, che stride con l’eleganza rinascimentale del colletto a gorgiera e delle maniche vaporose. Il nastro moderno, quasi industriale, è un gesto di rottura: un atto iconoclasta che nega la vista esteriore per spalancare quella interiore. Perché l’infinito non si guarda: si sente, si attraversa, si custodisce.
Al collo, due gioielli dai toni caldi e sanguigni, ornati di perle: rosso e bianco, sangue e purezza, materia e spirito. Non semplici ornamenti, ma segnali di un alfabeto simbolico che parla di dualità e riconciliazione. Alle spalle, due grandi foglie secche, come ali precarie: non piume angeliche, ma natura che si trasforma in spiritualità. L’essere umano diventa così un ibrido tra corpo e allegoria, tra creatura terrena e figura alata.
E poi le mani, ferme, eleganti, concentrate sul gesto di stringere una chiave dorata. Non una chiave qualunque, ma la chiave per l’infinito. È il cuore dell’opera, il suo sigillo. La chiave non apre una porta reale, ma indica un varco invisibile, interiore, forse mistico. È promessa e minaccia allo stesso tempo: possedere la chiave significa avere il potere, ma anche la responsabilità, di varcare una soglia che non tutti sono pronti ad attraversare.
Il titolo stesso, Chiave per l’Infinito, ci guida verso questa lettura. Di Gregorio ci dice che l’arte non deve solo rappresentare: deve aprire, squarciare, spalancare possibilità. In questo ciclo, Iconoclastica, le immagini nascono dalla distruzione consapevole di icone passate per generare nuove icone, attuali e universali. Il volto bendato, i simboli in bilico tra sacro e profano, la teatralità della posa: tutto concorre a creare una nuova religiosità, non dogmatica ma esistenziale.
Guardando quest’opera, lo spettatore si trova davanti a un enigma. La figura ci appare solenne, quasi divina, ma al tempo stesso fragile, resa vulnerabile dall’assenza di capelli, dall’assenza di occhi. È un’umanità che non ha certezze ma che stringe ancora una chiave. Un’immagine che non offre risposte ma che ci costringe a domandarci: qual è il nostro infinito? siamo pronti a varcarne la soglia?
La forza di Chiave per l’Infinito sta proprio in questa tensione: tra bellezza e inquietudine, tra passato e presente, tra icona e iconoclastia. Luciano Di Gregorio costruisce una pittura che è al tempo stesso tecnicamente impeccabile e concettualmente perturbante, capace di collocarsi in un dialogo sotterraneo con la storia dell’arte e con la nostra interiorità.
È un’opera che si guarda come si ascolta un oracolo: con timore, curiosità, reverenza. Non ci svela l’infinito, ma ci ricorda che esiste, e che forse la chiave è già nelle nostre mani.