Luciano Di Gregorio – FORME MENTALI Critica d’arte Nel ciclo FORME MENTALI, Luciano Di Gregorio abbandona ogni residuo figurativo per lavorare direttamente sull’origine del pensiero visivo: il segno che tenta di organizzare il caos. Le tre opere che presenti ne sono una sintesi esemplare, perché mettono a fuoco tre stati diversi della mente: la struttura, l’ombra interiore, la tensione organica. È una ricerca che non descrive, ma attiva; non rappresenta, ma interroga. 1. Le “strutture archetipiche” – Il pensiero come architettura primitiva Nella prima immagine, tre forme monolitiche emergono da un fondo neutro come presenze arcaiche. Sembrano blocchi, totem, macigni interiori. Le linee sottili che li attraversano — tagli, tensioni, tracciati — funzionano come mappe mentali: l’artista visualizza l’atto del “mettere ordine” dentro un pensiero ancora grezzo. Il segno qui non è decorazione: è una incisione sul tempo. Sono forme che “non vogliono” diventare altro, e proprio per questo appaiono drammaticamente autentiche. È l’atto mentale originario, la nascita di una idea prima che prenda forma definita. 2. Il volto frantumato – La psiche come luogo dell’ombra La seconda immagine è il contrappunto emotivo del ciclo: un volto emerge dal buio non come identità, ma come frammento psichico. Gli occhi sospesi, le cavità, il bianco che sembra corrodere e ferire: tutto parla di un pensiero che incontra la sua parte oscura. Questa opera non mostra un volto, mostra la “sensazione di un volto”: un’emersione e una dissoluzione simultanea. Il bianco brucia, il nero inghiotte, e la materia pittorica diventa il campo di battaglia tra visibile e inconscio. È una immagine inquieta, ma necessaria: è il momento in cui la mente deve fare i conti con ciò che rifiuta di vedere. 3. L’intreccio – Il pensiero come organismo vivente Nella terza immagine il segno esplode in una rete quasi nervosa, un groviglio che ricorda neuroni, rami, vene, radici. Qui Di Gregorio lavora su un’idea chiave: il pensiero non è una struttura rigida ma un organismo che si intreccia, cresce, si aggroviglia. L’opera suggerisce una mente attiva, ribelle, che non si lascia costringere in schemi lineari. Il tratto spezzato, i filamenti, l’energia che sale verso l’alto creano un movimento verticale: è l’ascesa, lo sforzo mentale che porta verso una forma nuova. Valore del ciclo: una mappa del pensiero contemporaneo Con FORME MENTALI, Di Gregorio disegna un percorso che va dal monolite al volto, dal volto al groviglio vitale. È come attraversare tre piani della mente: La struttura – ciò che pensiamo di essere. L’ombra – ciò che ci minaccia o ci definisce senza che lo ammettiamo. Il movimento organico – il pensiero come sistema in evoluzione. Non c’è narrativa, non c’è racconto: c’è un processo. Ed è un processo profondamente contemporaneo, perché parla di identità fluide, di interiorità che si disgregano e ricompongono, di una psiche sottoposta a pressioni del presente ma capace di reinventarsi. Conclusione Il ciclo funziona perché non offre risposte: offre forme che ci costringono a riflettere sulle nostre. È una ricerca che guarda avanti, che apre spazi di interpretazione e invita lo spettatore a entrare nel proprio labirinto mentale. Queste opere non chiedono di essere comprese. Chiedono di essere ascoltate.
DI SPALLE dal ciclo “IBRIDO” di Luciano Di Gregorio
DI SPALLE dal ciclo “IBRIDO” di Luciano Di Gregorio Nel silenzio bianco dello spazio, il corpo umano si fa enigma. “Di Spalle” di Luciano Di Gregorio ribalta la consueta frontalità dello sguardo, invitandoci a contemplare ciò che di solito resta nascosto: la schiena, la superficie vulnerabile e forte dell’essere. L’immagine, priva di volto, priva di identità dichiarata, diventa una metafora della condizione contemporanea: un’umanità che si ritrae, che si protegge e allo stesso tempo si espone. Le mani, sospese nell’aria come in un gesto di invocazione o metamorfosi, amplificano la tensione del corpo — un corpo che non è più semplice anatomia ma linguaggio, segno, scultura viva. Nel ciclo IBRIDO, Di Gregorio esplora la fusione tra organico e concettuale, tra realtà e artificio digitale. Qui il corpo, pur essendo umano, si trasforma in una forma quasi scultorea, levigata e luminosa, come se fosse un materiale nuovo, un ibrido tra carne e idea. La pelle si fa marmo e luce, il movimento diventa icona. “Di Spalle” parla di assenza e di presenza, di distanza e di intimità. L’assenza del volto non è un vuoto, ma uno spazio aperto alla proiezione dello spettatore: chi guarda completa l’immagine, la abita, la riconosce.Nel gesto delle mani si avverte un’eco ancestrale, un richiamo al gesto artistico primigenio — quello di chi plasma, invoca, modella. Luciano Di Gregorio ci invita così a un rovesciamento dello sguardo: guardare “di spalle” significa andare oltre la superficie, scoprire il linguaggio silenzioso del corpo, lasciarsi toccare dal mistero dell’umano nell’epoca dell’ibridazione digitale.
Furto clamoroso al Louvre: banda in fuga con i gioielli di Napoleone. Panico tra i visitatori, museo evacuato
Parigi – Un colpo che sembra uscito dalla sceneggiatura di un film, ma che si è consumato nella realtà, nel cuore del più celebre museo del mondo. Questa mattina, intorno alle 9:30, quattro ladri – forse stranieri, secondo le prime ricostruzioni – sono penetrati nel Louvre servendosi di un furgone dotato di montacarichi e due scooter Yamaha T-Max. In appena sette minuti hanno messo le mani su alcuni dei gioielli più preziosi appartenuti all’epoca napoleonica. Colpo fulmineo nella Galleria di Apollo Vestiti con gilet gialli per confondersi con gli operai del cantiere presente da mesi nei pressi dell’ingresso, i malviventi hanno raggiunto il primo piano dell’ala Denon, dove si trova la Galleria di Apollo, celebre per ospitare le collezioni di gioielli della Corona francese. Hanno forzato una finestra con una sega circolare, infranto due teche blindate e si sono impossessati di otto pezzi, tra cui corone incastonate con diamanti, tiare e gioielli appartenuti a figure imperiali. Uno dei manufatti, la preziosa corona dell’imperatrice Eugenia – moglie di Napoleone III, decorata con 1.354 diamanti e 56 smeraldi – è stata perduta durante la fuga ed è stata ritrovata danneggiata poco dopo dalle forze dell’ordine. Evacuazione del museo e testimonianze Il Louvre è stato immediatamente chiuso e i visitatori già presenti sono stati evacuati. Nessun ferito, ma alcuni hanno riferito attimi di panico, mentre altri, increduli, hanno filmato la scena. In uno di questi video si vede chiaramente uno dei ladri intento ad aprire una teca con calma chirurgica, indossando un gilet da operaio. Gli allarmi della finestra e delle vetrine, conferma il ministero della Cultura, sono effettivamente scattati. Cinque agenti di sorveglianza presenti nella sala hanno attivato il protocollo di emergenza, contattando subito le forze dell’ordine e cercando di mettere in sicurezza visitatori e opere. I ladri sono poi fuggiti verso il Lungosenna sui due scooter, abbandonando attrezzature e parte del bottino nel furgone, dove un tentativo di incendio è stato sventato da un addetto alla sicurezza del museo. La politica insorge: “Un’umiliazione nazionale” “Un attacco al nostro patrimonio e alla nostra storia”, ha scritto su X (Twitter) il presidente Emmanuel Macron, assicurando che “le opere saranno ritrovate e i colpevoli assicurati alla giustizia”. Il presidente ha citato anche il progetto “Louvre Nouvelle Renaissance”, che prevede un rafforzamento generale della sicurezza del museo. Dure le reazioni dell’opposizione. Jordan Bardella (Rassemblement National) ha parlato di “umiliazione per la Francia”, mentre Marine Le Pen ha denunciato la mancanza di misure adeguate per proteggere musei e monumenti storici. Da mesi, sindacati e dipendenti del Louvre denunciano strutture obsolete, guasti tecnici e scarsità di personale. A gennaio, la direttrice del museo aveva già allertato il Ministero della Cultura sulla necessità di interventi urgenti. Per rispondere a tali criticità, il governo aveva annunciato investimenti per 500 milioni di euro in lavori di rinnovamento. Indagini in corso, bottino dal valore incalcolabile Le forze dell’ordine stanno analizzando i video di sorveglianza, il cellulare dei visitatori e i materiali lasciati sul posto per identificare i ladri, definiti dai primi investigatori “professionisti ben preparati e informati”. Il valore economico dei gioielli rubati è considerato “inestimabile”, non tanto per il valore di mercato, quanto per quello storico e simbolico: si tratta di testimonianze dirette dell’epopea napoleonica e dell’arte orafa imperiale. ⸻ Un colpo spettacolare, dal sapore d’altri tempi, che riapre il dibattito sulla fragilità dei grandi musei europei e sul prezzo da pagare per custodire la memoria della storia
IL PROGETTO DI TEODOSIO CAMPANELLI – LA CITTÀ DELLA PACE
La Città della Pace All’inizio era solo un pensiero, un lampo apparso osservando la Terra da lontano. Da lassù, persino dalla Luna, non si distingue più nulla: né la Cina, né l’Italia, né i confini. Solo una sfera azzurra che ruota silenziosa, fragile e perfetta. E guardandola da quella distanza, tutto sembra così semplice — come se i popoli potessero finalmente riconoscersi, come se le guerre, i rancori, le divisioni non avessero più senso. Da quell’immagine è nato il sogno: costruire un luogo dove la Terra potesse ricordarsi di essere una sola. Un luogo che non appartiene a nessuna nazione, ma le rappresenta tutte. Un luogo di pietra e luce, di mani e speranza. Sarebbe sorto in Italia, cuore del Mediterraneo, culla di arte e incontro di civiltà. Un grande cerchio di pietre, piantate come antenne millenarie nella terra, a evocare Stonehenge, l’Isola di Pasqua, i cerchi sacri dei popoli antichi. Un cerchio che raccoglie energia e la restituisce, come un respiro del pianeta. Il progetto si chiama “La Città della Pace”. Non è un monumento e nemmeno un parco: è un organismo vivente che cresce lentamente, anno dopo anno. Ogni nazione del mondo è invitata a partecipare: un artista, o un gruppo di artisti, scolpirà un proprio monolito. Pietre grezze che, poco a poco, prenderanno forma, raccontando le infinite lingue della pace. Immagina la scena: su due blocchi di pietra, uno accanto all’altro, un artista israeliano e uno palestinese lavorano insieme, fianco a fianco, mentre il rumore degli scalpelli si mescola al vento del mare. Altrove, un tibetano e un americano incidono simboli, un thailandese plasma una figura circolare, un africano scolpisce un volto che guarda verso il sole. Sotto ogni pietra, un nome e un Paese, come a dire: “noi c’eravamo”. Ogni anno verranno scolpiti una decina di monoliti. Ce ne vorranno vent’anni per completare il cerchio. Ma non importa, perché il tempo stesso fa parte dell’opera. Venti anni di lavoro, di incontri, di parole scambiate, di amicizie nate. Venti anni in cui la pace smetterà di essere un concetto astratto per diventare un cantiere, una costruzione reale. Nel frattempo, intorno al cerchio cresceranno altre strutture: musei, scuole, biblioteche, centri di ricerca, luoghi di dialogo e di accoglienza. Un’agorà contemporanea, un giardino planetario, una Manhattan della pace con al centro un grande spazio verde e intorno edifici che guardano al futuro. Non serve molto spazio: un paio di ettari bastano per accendere un sogno grande come il mondo. Ogni pietra sarà alta quattro o cinque metri, diverse per forma e colore. Alcune semplici, altre ardite come sculture moderne; altre ancora leggere come foglie. Ci saranno quelle imponenti, come quelle affidate ai Paesi più vasti — Russia, Cina, Stati Uniti — e quelle più piccole, ma non meno preziose, scolpite da nazioni minute, da isole lontane, da popoli dimenticati. Il fondatore del progetto — un artista visionario, un sognatore con la pazienza dei costruttori antichi — ha scritto lettere per anni. Lettere ai presidenti, ai ministri, ai magnati, alle regine. Alcuni hanno risposto. Dal Cile, dal Qatar, persino dalla moglie dell’emiro, che con parole gentili chiese di sapere di più. E ogni risposta, anche la più breve, è diventata un piccolo tassello del sogno. Certo, qualcuno potrà dire che è un progetto megalomane. Ma non è forse megalomane ogni visione che vuole unire l’umanità? Non lo fu anche Alessandro quando fondò Alessandria d’Egitto per lasciare al mondo un segno d’eternità? E allora sì: La Città della Pace è un sogno grande, smisurato, ma possibile. Un giorno, il Paese che la ospiterà potrà dire di custodire l’ottava meraviglia del mondo: un luogo dove tutte le nazioni della Terra hanno lasciato la loro impronta, non per dominare, ma per costruire insieme. Un luogo dove la pietra diventa preghiera, e la mano che scolpisce diventa linguaggio universale. Un luogo che non cancella le guerre, ma le sovrasta con la bellezza. E mentre il sole si abbassa sull’orizzonte, e le ombre dei monoliti si allungano sulla terra, una luce nuova — la stessa che un tempo guidava i popoli antichi — torna a brillare: la luce dell’uomo che, per un istante, ricorda chi è davvero.
Il Museo Basilio Cascella verso il futuro: da casa d’artista a Officina della Contemporaneità
Tommaso Cascella e Mariano Cipollini propongono una rinascita attiva per il museo pescarese: un laboratorio vivo di arti visive e performative che coniughi memoria e innovazione. Fare del Museo Basilio Cascella “un’officina della contemporaneità” non è solo un progetto di gestione museale: è una visione. È la volontà di riaccendere un’eredità familiare lunga 150 anni, proiettandola nel presente con una funzione rinnovata — quella di un laboratorio di idee, arti e partecipazione. L’artista Tommaso Cascella, erede di una dinastia che ha segnato la storia dell’arte abruzzese e italiana, e il curatore Mariano Cipollini, hanno presentato alla commissione Cultura del Comune di Pescara una proposta che promette di trasformare il museo di via Marconi in un luogo vivo, dinamico, interconnesso con il mondo. “Il museo deve tornare ad essere un punto di riferimento per la città e per chi la visita — un luogo dove si produce, non solo dove si conserva”, ha dichiarato Cascella, ricordando come il museo abbia attraversato “cinquant’anni tribolati”. L’obiettivo è far sì che il museo “cammini con le proprie gambe”, valorizzando non soltanto le oltre 600 opere custodite, ma soprattutto la continuità creativa di una famiglia che ha attraversato sei generazioni — un caso raro anche a livello internazionale, “che non si trova neppure in Giappone”, come sottolineato in commissione. Una bottega d’arte per il XXI secolo Cipollini ha posto l’accento sulla longevità artistica dei Cascella, sottolineando la necessità di farne un modello: una “bottega moderna”, ponte tra il patrimonio storico e le nuove pratiche della contemporaneità. Il museo, nella visione condivisa con l’amministrazione, diventerebbe così un centro di produzione culturale aperto alle arti visive, ma anche alla musica, alla danza, alla scrittura, al cinema, al costume e al giornalismo, accogliendo iniziative performative e formative che restituiscano alla città di Pescara un luogo di aggregazione e scambio. Un approccio multidisciplinare, insomma, che riecheggia l’antica tradizione dei Cascella — pittori, scultori, ceramisti, incisori e grafici — ma la proietta nel linguaggio del nostro tempo, dove le arti dialogano e si contaminano. Dall’Abruzzo al mondo Il progetto guarda lontano. Tra le prospettive già accennate, collaborazioni con musei e accademie internazionali — dall’Accademia di San Luca di Roma a istituzioni in Cile e in Abruzzo, con mostre e scambi culturali sostenuti anche dalla Regione. La rete che si intende costruire è quella di un Abruzzo che si riapre al mondo attraverso la cultura, riportando il nome di Cascella (e di Pescara) nel circuito nazionale e internazionale dell’arte contemporanea. Una politica culturale che genera appartenenza Come ha osservato la consigliera Caterina Artese, presente all’incontro, “il museo Basilio Cascella non è ancora riuscito a diventare un luogo di aggregazione cittadina, nonostante l’orgoglio che rappresenta”. La proposta di Cascella e Cipollini, dunque, si muove in una direzione precisa: riattivare l’identità culturale del museo come luogo d’incontro, di appartenenza, di partecipazione attiva. Un’officina della contemporaneità in cui le generazioni si incontrano, le arti si fondono e la memoria si rinnova, trasformando un archivio familiare in una fucina pubblica di creatività condivisa. In prospettiva, il Museo Basilio Cascella può diventare ciò che è sempre stato nella sua essenza: una casa dell’arte, ma anche una scuola di futuro. Un luogo dove l’eredità del passato si traduce in linguaggio contemporaneo, dove la tradizione non è vincolo ma energia generatrice — e dove la città di Pescara può finalmente riconoscersi in una cultura che non contempla, ma agisce.
La famiglia Cascella. Oltre il Tempo a Madrid
A Madrid la prima retrospettiva spagnola dedicata a cinque generazioni di artisti abruzzesi Madrid accoglie, dal 26 settembre all’8 novembre 2025, negli spazi dell’Istituto Italiano di Cultura, la mostra La famiglia Cascella. Oltre il Tempo, un viaggio che attraversa più di un secolo e mezzo di arte italiana. Per la prima volta in Spagna, il pubblico potrà ammirare le opere di cinque generazioni di artisti abruzzesi che hanno saputo reinventare il concetto stesso di tradizione, proiettandolo verso linguaggi sempre nuovi. L’iniziativa è promossa dall’Ambasciata d’Italia a Madrid, dall’Istituto Italiano di Cultura e dal Consiglio Regionale dell’Abruzzo, con il coordinamento dell’associazione Casa Abruzzo. Il progetto è curato da Guicciardo Sassoli de’ Bianchi Strozzi per Nuova Artemarea, con la supervisione scientifica dell’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani. Un’eredità rinascimentale che guarda al futuro Come nelle antiche botteghe rinascimentali, i Cascella hanno fatto dell’arte un laboratorio intergenerazionale in cui pittura, scultura, ceramica, editoria e illustrazione dialogano con le più recenti sperimentazioni fotografiche e digitali. Dalle radici di Basilio Cascella (nato a Pescara nel 1860), fino alle ricerche di Matteo Basilè e Davide Sebastian, la famiglia ha mantenuto viva la capacità di unire radici e innovazione, costruendo una narrazione estetica che attraversa il tempo. L’Ambasciatore d’Italia a Madrid, Giuseppe Buccino Grimaldi, sottolinea come la mostra sia più di una retrospettiva: “È una meditazione sul tempo, sull’arte come permanenza, sulle forme che ci riconducono all’origine”. Accanto alle opere, il percorso espositivo ospita anche documenti storici che restituiscono la densità filologica del cammino creativo della famiglia. Arte come agente quantistico La Direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura di Madrid, Elena Fontanella, definisce i Cascella “un agente quantistico che attraversa il tempo con il linguaggio universale dell’arte, dove memoria e divenire si intrecciano in un’estetica di visioni ed emozioni”. Una definizione che cattura l’essenza della mostra: l’arte come flusso ininterrotto, ponte tra epoche e sensibilità. Un progetto itinerante Madrid rappresenta solo la prima tappa di un percorso espositivo itinerante che porterà la Famiglia Cascella in altri Istituti Italiani di Cultura nel mondo e in sedi istituzionali, con l’obiettivo di raccontare un’Italia che cambia senza mai tradire i suoi valori fondanti di creatività, cultura e innovazione. Con La famiglia Cascella. Oltre il Tempo, la capitale spagnola si trasforma così in un osservatorio privilegiato di una storia artistica unica, che unisce generazioni e discipline, ponendosi come esempio universale di continuità e metamorfosi.
A Venezia, la Nicoletta Fiorucci Foundation si trasforma in un corpo vivo con Tolia Astakhishvili
Un progetto site-specific che abbatte le barriere tra spazio, memoria e corpo. Curato da Hans Ulrich Obrist, l’intervento inaugura il nuovo spazio veneziano della Fondazione con una riflessione radicale sulla fragilità delle strutture – fisiche e simboliche – che regolano il nostro abitare. Un nuovo battito per Dorsoduro Venezia, settembre 2025 – Non un’inaugurazione tradizionale, ma un vero e proprio rito di passaggio. Così si presenta l’apertura della Nicoletta Fiorucci Foundation nel suo nuovo spazio a Dorsoduro 2829, nel cuore di Venezia. L’edificio, un tempo proprietà del priorato di Sant’Agnese e successivamente rifugio per giovani orfane, per poi trasformarsi in studio d’artista di Ettore Tito, si offre oggi in una nuova veste: un corpo vivente, vulnerabile e pulsante, grazie all’intervento dell’artista georgiana Tolia Astakhishvili (Tbilisi, 1974). La mostra, dal titolo to love and devour, è il primo capitolo di un programma espositivo che la Fondazione intende sviluppare nel tempo, sotto la direzione curatoriale di Hans Ulrich Obrist, una delle figure più influenti del panorama contemporaneo. Un’architettura smembrata e abitata Astakhishvili ha letteralmente abitato lo spazio per mesi, lavorandovi dall’interno, come un chirurgo che conosce il corpo che deve operare. Ha abbattuto muri, lasciato altri come tracce fantasmatiche, costruito nuove compartimentazioni che disorientano il visitatore. Il percorso non è segnato da cartelli o frecce, ma solo da una porta socchiusa e qualche fotocopia del comunicato stampa: un invito implicito a perdersi. L’allestimento si sviluppa in verticale, su più piani, come un labirinto di stanze erose. Muri scarnificati, tubature sospese, detriti sparsi, finestre velate da carta gialla che tingono l’ambiente di una luce calda e ambigua: tutto contribuisce a generare un senso di spaesamento. Al piano terra, un tavolo-oggetto incorpora posate e stoviglie come reliquie di un banchetto interrotto, mentre il bagno – spogliato di porte e pareti – diventa un luogo di esposizione radicale della vulnerabilità del corpo. Disegni come anatomie, architetture come corpi Nei disegni di Astakhishvili, presentati lungo il percorso, corpi e architetture si fondono: spalle e pavimenti si sovrappongono, arti si trasformano in travi, anatomie perdono centralità. L’edificio stesso sembra sottoposto a una vivisezione: pareti aperte come costole, organi mancanti, tubature esposte come nervi. È un gesto che non mira a ricomporre, ma a rivelare il collasso delle gerarchie che regolano lo spazio domestico. «L’edificio diventa un organismo vulnerabile, segnato da traumi – un corpo che respira, che vive e muore insieme a chi lo attraversa», spiega la curatela. Dialoghi con la storia dell’arte e del pensiero contemporaneo Il progetto trova un’eco nella ricerca di Pierre Huyghe, che con Timekeeper (1999/2001) sabbiò una parete della Vienna Secession rivelandone la stratificazione storica come i cerchi di un albero. Ma se Huyghe lavora per svelare i livelli temporali attraverso un gesto di rivelazione, Astakhishvili abita l’assenza, lascia le pareti mancanti e le divisioni aperte, esponendo l’instabilità come condizione permanente. Il parallelo si estende anche ad Alessandra Ferrini, che in Gaddafi in Rome (2022) utilizza la metafora anatomica per sezionare la memoria collettiva. In entrambi i casi, l’arte si fa strumento chirurgico, capace di scavare nella materia viva della storia.
“Sensazioni Addosso”: l’alchimia visiva di Luciano Di Gregorio tra memoria, icone e metamorfosi
Nel nuovo capitolo del ciclo ICONOCLASTICA, Luciano Di Gregorio ci consegna Sensazioni Addosso, un’opera che si impone come un’ode alla fragilità e alla potenza dell’immaginario. La figura femminile, sospesa tra il reale e il visionario, si presenta come un’apparizione: volto diafano, labbra carminio, colletto rinascimentale che sembra respirare da solo. Ma è sullo sfondo – e sulla pelle stessa del soggetto – che avviene la vera rivoluzione percettiva: una folla di presenze, impronte di colore e ombre aranciate, si sovrappongono al corpo trasformandolo in palinsesto emotivo. Di Gregorio lavora come un regista dell’inconscio: ogni dettaglio diventa vibrazione psichica. Le pennellate digitali e fotografiche, fuse in un unico respiro, raccontano di un’umanità molteplice, stratificata, che abita la stessa carne. È come se il corpo ritratto fosse un campo magnetico capace di attrarre memorie, sogni e paure collettive. Il titolo Sensazioni Addosso suggerisce una fisicità emotiva: ciò che proviamo non resta astratto, ma ci veste, ci avvolge, ci trasforma. In questa chiave l’opera diventa specchio della contemporaneità, dove l’individuo è continuamente attraversato da flussi di immagini, notizie e stimoli sensoriali. L’impianto compositivo rimanda al ritratto fiammingo e al Rinascimento italiano, ma l’approccio è decisamente post-digitale: il tempo pittorico si scontra con la rapidità dell’elaborazione fotografica, generando un cortocircuito tra tradizione e futuro. Questo è il cuore di ICONOCLASTICA: non distruggere le icone, ma re-immaginarle, scardinarle dall’immobilità per restituirle vive, pulsanti. Di Gregorio invita lo spettatore a non fermarsi alla superficie estetica, ma a percepire l’opera come esperienza sensoriale totale. Sensazioni Addosso non si guarda soltanto: si sente, si indossa, si respira.
VELASCO VITALI A PIETRASANTA: TRA VENTO E TERRA, UN DUELLO DI PITTURA
Pietrasanta continua a confermarsi una delle capitali italiane dell’arte contemporanea. Alla Galleria Antonia Jannone Disegni di Architettura, fino al 24 settembre 2025, si incontra un dialogo serrato e appassionante: “Vele” e “Terra Rossa”, due cicli pittorici emblematici di Velasco Vitali (Bellano, 1960), per la prima volta presentati insieme in un unico spazio. L’allestimento è rigoroso: due metà della stanza, due universi che si guardano. Da un lato, le vele – presentate qui in galleria per la prima volta – aprono un varco verso il mare, l’aria, il movimento. Dall’altro, i campi da tennis della “Terra Rossa”, già esposti nel 2024, ci riportano a terra, a un piano geometrico e mentale, a uno spazio sospeso. Il risultato è un confronto che più che una contrapposizione sembra un respiro a due tempi: un andare e un tornare, un inspirare e un espirare, una pittura che si misura con il tempo e con sé stessa. La forza di Vitali è nella sua capacità di trasformare temi quotidiani in dispositivi concettuali. La vela diventa un esercizio di libertà e controllo: pennellate materiche e potenti che scolpiscono cieli e mari, creando immagini instabili, in bilico tra astrazione e racconto. Guardandole, sembra di sentire il vento. Il campo da tennis, al contrario, è deserto e silenzioso, privo di presenza umana: una mappa mentale, quasi un luogo dell’anima, dove le linee bianche diventano segni di orientamento, e la superficie è agitata da pennellate che ricordano il magma di un pensiero in formazione. Il progetto curatoriale della galleria funziona perché evidenzia la coerenza di una ricerca trentennale. Vitali, pittore e scultore visionario, lavora per cicli, per ossessioni. Qui lo vediamo fare i conti con due poli complementari: la leggerezza del vento e il peso della terra. Il risultato è un percorso immersivo e intimo, che invita a interrogarsi non solo sulla pittura, ma sul nostro modo di stare nel mondo: sospesi tra slancio e radicamento, tra desiderio di fuga e necessità di un luogo in cui fermarsi. Una mostra che vale il viaggio a Pietrasanta: per respirare a pieni polmoni, tra vele e linee bianche, la libertà inquieta della pittura di Velasco Vitali.
Sguardo di piccola luce
Sguardo di piccola luce Dal ciclo “Iconoclastica” di Luciano Di Gregorio Con Sguardo di piccola luce, il fotografo Luciano Di Gregorio ci accompagna in un viaggio silenzioso, fatto di ombre e chiarori, dove una giovane donna regge una candela come se fosse l’ultima scintilla di speranza in un mondo immerso nel buio. L’immagine colpisce per il suo equilibrio tra eleganza classica e sensibilità contemporanea. La modella, avvolta da veli che sembrano fumo o vento solidificato, emerge dal fondo nero come una figura sospesa nel tempo. Lo sguardo è calmo, quasi assorto, e invita lo spettatore a condividere un momento di intimità e contemplazione. La luce della candela non serve solo a illuminare la scena: diventa il vero cuore del racconto. È una luce piccola, sì, ma intensa, che sembra proteggere il volto della giovane e guidare chi osserva. È la metafora di un’umanità che resiste, di un pensiero che brilla anche quando tutto sembra spento. La scelta cromatica, sobria e raffinata, amplifica l’effetto emotivo. I verdi trasparenti dei veli e il marrone profondo dell’abito creano un contrasto delicato, quasi pittorico, che ricorda i ritratti rinascimentali e le nature morte fiamminghe. Ma qui non c’è nostalgia: c’è un dialogo tra passato e presente, tra sacro e profano, che rende l’opera viva e attuale. Il ciclo “Iconoclastica”, di cui questa fotografia fa parte, si interroga proprio su questo: cosa significa oggi creare icone, immagini che restino, in un’epoca di scorrimento veloce e consumo istantaneo? Con Sguardo di piccola luce, Di Gregorio sembra rispondere che l’arte può ancora fermarci, può ancora chiedere silenzio e attenzione. In definitiva, questa immagine è più di un ritratto: è un piccolo rito visivo, un invito a riscoprire il valore della luce — interiore ed esteriore — che ci accompagna anche nei momenti più oscuri.
